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CHRISMA,
un punto di vista
DIARIO DI BORDO
2006-2011

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DIECI RISPOSTE

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Sappiamo tutti da dove veniamo, ma non con altrettanta certezza sappiamo dove andiamo. Qualcuno sa dove vorrebbe andare. Qualcun'altro vorrebbe saperlo.
"Uno, due, tre, quattro, cinque, sei..... seicento....... seimila.....". C'è chi ha smesso di contare. C'è chi non ha mai cominciato.

Questo spazio è fatto per segnare il passo. Se uno non segna il passo, non riesce a tenere il conto dei passi fatti - e di quelli ancora da fare. Questo spazio è fatto per marcare il tempo. Se uno non marca il tempo, il tempo è come non fosse passato.
Questa è la prima pietra. Oggi 26 Agosto 2006.

Il mio pensiero ultimativo (?) sul lavoro è marxista: il lavoro costituisce l'essenza dell'uomo. Se l'uomo vuole riappropriarsi di sè stesso, deve riappropriarsi innanzitutto del proprio lavoro. Oggi, a distanza di più di un secolo dalla morte di Marx, i più continuano a lavorare per vivere, anzichè vivere per lavorare. Di più: la massima fondamentale per la quale il lavoro è il fine e non il mezzo è obliata a tal punto da risultare ai più assurda. Siamo così abituati a scindere il lavoro dalla vita, il tempo del lavoro dal tempo della vita, che abbiamo ridotto il vivere al mero soddisfacimento dei nostri bisogni fisiologici più o meno elementari (mangiare, bere, dormire, riprodurci, etc.). Non si tratta di sottrarre tempo al lavoro per restituirlo alla vita, ma si tratta di porre le persone nella condizione di svolgere un lavoro nel quale realizzino se stessi. Settemebre diciannove.

Ho imparato una cosa. Meglio: ho focalizzato bene una cosa che ho sempre sospettato. Anche il cinema italiano è un'industria (forse, come dice Agosti, neppure un'industria, ma un "aborto permanente", una non-industria coi difetti dell'industria), un meccanismo, un ingranaggio. Nel cinema di oggi, quello che circola nei grossi circuiti e che va nelle sale, non esiste spazio per l'Autore. Settembre ventuno.

Ho scritto a Silvano Agosti (giorni fa) - sperando in una risposta. Non l'ho ancora avuta. Settembre ventidue.

Io sono un individualista - lo sono sempre stato. Non mi interessa la politica, mi interessano i singoli, le persone. E le persone non sono tutte quante uguali, non vogliono tutte le stesse cose, non vestono allo stesso modo, nè pensano allo stesso modo; spesso la felicità dell'uno fa a botte con quella dell'altro, e viceversa. Dare la felicità a tutti, vuol dire non darla a nessuno, e darla a qualcuno vuol dire non darla a qualcun altro. Come individualista credo ciascuno debba prendersi la felicità che può, e quanta più può. Vedo la cosa in una metafora. C'è una barca. Su quella barca c'è la salvezza. Ma i posti non sono sufficienti per tutti quanti. Dal momento che non è possibile costruire una barca più grande, l'unica cosa da fare è prendersi il proprio posto sulla barca che c'è.
P.S. Questo non significa che non mi sia mai capitato d'essere altruista - anzi, potrei dire, che forse sono per natura portato all'altruismo: soltanto, questa è una cosa che non consiglierei a nessuno. Settembre ventisei.

Come pessimista spero sempre d'essere contraddetto. Diciamo che alla gente mediamente piace essere ascoltata e non ascoltare. Le lodi fanno piacere, anche quando sono a sproposito. Entra chi china la testa un pò di più. E chi è entrato, chiude la porta dietro di sè. La domanda è sempre la solita: che ne sarà di quelli che non chinano la testa? Ottobre due.

Questa settimana mi sento fortunato - non perchè abbia qualcosa che prima non avevo, ma perchè continuo ad avere ciò che ho. Il fatto è c'è bisogno di una disgrazia altrui per ricordarmelo. A Fabrizio. Ottobre diciotto.

Esistono persone le quali non sono portate per natura alla felicità. Uno direbbe: hanno tutto per essere felici, eppure non lo sono. Esistono persone le quali sono infelici soltanto accidentalmente, per un caso. Non è nella loro natura essere infelici, anche se lo sono. Esistono persone. Ed esistono altre persone - sempre. Ottobre ventotto.

La serenità ha qualcosa di inquietante e di meraviglioso al contempo a vedersi. Ho visto persone serene nella disgrazia. Credo la serenità dia altri occhi. E credo pure non si possa insegnare, nè imparare. La serenità non si può che invidiare. Dicembre 2006.

La Ragione uccide la fede. L'esercizio della Ragione, con gli anni, ha ucciso quel poco di fede che avevo. Mio malgrado l'ha uccisa. L'uomo di Ragione è solo: questa è una verità. Ma all'uomo di Ragione rimangono gli altri uomini, ed anche questa è una verità. L'uomo di Ragione non è privo d'un Dio, come qualcuno può credere, solo ha un altro Dio.

Ho scritto ad Asia Argento. Spero in una risposta, anche se ne dubito. Spero perchè è giovane, e non è una conformista. Dubito perchè ho scritto ad altri, che non hanno risposto. Dubito perchè è famosa. Ma siamo in un nuovo anno: 2007. Ed è lecito sperare. Gennaio quattordici.

Vivere sulla Luna o vivere coi piedi per terra: qual è la differenza? Vivere coi piedi per terra significa per la gente (per i più) pensare concretamente, agire in vista del domani e non del dopodomani, non fare mai un passo più lungo della gamba. Io credo che chi vive coi piedi per terra resterà sempre a terra. Forse, un tempo, da ragazzo, il suo sguardo vedeva il cielo, ma ora non vede più in là del suo piede. Quello che ammiro nei ragazzi è che hanno ancora occhi per guardare il cielo - e per vederci qualche cosa. Tutti gli altri sono schiavi del principio di realtà. Io non credo che ai ragazzi bisogni insegnare a stare coi piedi per terra per il semplice motivo che, altrimenti, cadranno. Se un giorno cadranno, succederà perchè doveva succedere, ma non succederà perchè abbiamo tarpato loro le ali.

Al giorno d'oggi non esistono più mentori, mecenati. Ciascuno deve aiutarsi da sè. Il fatto è che oggi, con la tecnologia, ciascuno può aiutarsi da sè. Quello che si è perso da una parte si è guadagnato dall'altra e, forse, alla fine, i conti vanno in pareggio. D'ora in poi mi aiuterò da me.

Oggi l'ignoranza è una scelta - e lo diverrà sempre di più. Kant dell'Illuminismo disse: è la liberazione dell'uomo dallo stato di minorità mentale volontaria. Ai suoi tempi la minorità mentale poteva ancora essere volontaria: oggi no. Un tempo l'analfabetismo era diffuso, non esisteva l'istruzione gratuita e obbligatoria, i libri costavano - e, innazitutto, bisognava saperli leggere. Oggi il sapere è alla portata di tutti: è alla portata di un clic.

Per quanto uno cerchi di dominare il caso - sarà sempre il caso ad avere la meglio. Il caso è una di quelle cose che non si dominano. In effetti tutta la storia dell'Umanità è un tentativo costante di dominare il caso.

Spesso mi capita di parlare positivamente di Internet - spesso mi ripeto nel tessere lodi. Tuttavia, ogni volta, mi convinco sempre di più che avevo ragione. Internet è accesso alle notizie da parte di chiunque, in ogni momento, ma è anche la possibilità, per ognuno, di fornire notizie - anche quelle che altrimenti sarebbero taciute. E molte sono le notizie che altrimenti sarebbeo taciute. Ad ogni modo, non mi nascondo come ogni rosa abbia le sue spine. Della Società dell'Informazione si potrebbe dire ciò che J.J. Rousseau diceva, nel Contratto, dello Stato di società: "se gli abusi di questa nuova condizione non degradassero spesso l'uomo al di sotto di quella da cui è uscito, dovrebbe benedire costantemente l'istante felice che lo strappò per sempre da quelle sue condizioni primitive". Marzo due.

Questo, a parte il nome, non è un Diario. Anzi, in verità lo è. Si tratta di intendersi sui termini. Io non credo che interessi a nessuno la vita di un altro. Ciascuno ha la sua vita, intesa come insieme di fatti che capitano, di azioni compiute, di azioni mancate, di parole dette o di parole taciute. Di tutto questo ciò che resta è un pensiero, o un'emozione. Tutto quello che sono questi avvenimenti è soltanto quel pensiero o quell'emozione . I più grandi diari li hanno scritti gli scrittori - raccontando storie inventate. Chi ha potuto, ha fatto film (e parlo dei registi o degli sceneggiatori). I più grandi film sono le biografie spirituali dei loro Autori.

Debbo dire che, in fin dei conti, mi sono capitate nella mia vita tante cose, ma tante le ho viste capitare a gente che sta intorno a me - anche a gente a me molto vicina. Ho imparato più da quello che ho visto capitare ad altri intorno a me, che da quello che è capitato a me. Anche adesso sto imparando da qualcuno. Marzo otto.

Se rifletto sulla gioventù di oggi e su quella di ieri - e per "gioventù di ieri" non intendo neppure quella alla quale appartenevo io, ma la gioventù dei padri della mia generazione - noto una cosa: che quello che è venuto a mancare è un'ideale, uno scopo che non sia il proprio benessere individuale. La gioventù di oggi non è per nulla politica: e questo è, in un certo senso, un bene, rispetto agli eccessi (tragici) di un tempo - tuttavia questo è anche un male, poichè la priva di ogni forma d'altruismo. Le tematiche che oggi noi affrontiamo (nell'arte, nel cinema, etc.), nella migliore delle ipotesi, sono tutte esistenziali, legate al singolo, ai suoi problemi individuali, di vita più o meno quotidiana: non c'è un progetto che vada al di là dell'individuo singolo, un progetto per un mondo diverso, nuovo. Oggi nessuno pensa che il mondo si possa cambiare, ma tutti pensiamo a ritagliarci il pezzo migliore del mondo che c'è.

Non sono mai stato interessato alla politica in sè, ma penso che l'avere una grande passione politica (indipendentemente dal suo colore) sia segno di nobiltà d'animo. Chi ha un'autentica passione politica è pronto a dare la vita per un ideale - e questo non è da molti. Oggi, tuttavia, credo siano più ben pochi quelli disposti a sacrificare la vita per un ideale. Si è soliti dire che non ci sono più ideali: io credo sia più corretto dire che non ci sono più idealisti.

Ci sono tante cose che rendono felici e ci sono tanti tipi di felicità - come d'infelicità, del resto. Oggi m'è capitato un tipo nuovo di felicità, cui non avrei pensato. Ho fatto l'insegnante pressocchè per caso - non è quello che un tempo avrei voluto fare, nè che avrei pensato di fare. Tuttavia, insegnare, specie a ragazzi giovani, dà soddisfazioni che non ti aspetti. E, a volte, c'è anche della riconoscenza che non t'aspetti. Oggi, trenta maggio 2007 - un giorno dopo il mio compleanno.

E' finita la scuola. Per la prima volta ho finito la scuola da insegnante e non da studente: strana sensazione, guardare dal di fuori quello che si è stati.... Giugno nove.

Dopo un anno e poco più d'insegnamento posso tracciare una febnomenologia del punto di vista docente. La prima cosa che si nota - da questa parte della cattedra - è che tu non hai a che fare con singoli individui, ma con una totalità, con un unico organismo. Voglio dire: ogni ragazzo o ragazza ti risulta inconcepibile se non come parte del tutto che è la classe: è come se uno è la mano, uno il piede, uno l'occhio, etc. Se venisse meno uno di loro sarebbe come avere dinnazi un individuo monco. Non riesco a pensare che questi ragazzi e ragazze sono anche dei singoli, cioè che hanno una vita a parte rispetto alla classe, che sono ciascuno a suo modo un mondo a parte. Penso che questo - l'esperienza scolastica - è (almeno per i più) l'unico perido della vita in cui ciascuno è parte di un tutto ed in cui il tutto ha una parte maggiore dell'individuo singolo.

Mi capita, come m'è capitato (per quanto insegni da poco) d'essere molto amato dagli studenti. Questo fa senz'altro piacere. Mi domando le ragioni della fiducia che i ragazzi generalmente ripongono in me. La spiegazione più semplice che mi viene da darmi è così semplice che può apparire a qualcuno stupida. Io credo i ragazzi (al di là della bravura e competenza didattica di un insegnante, che può essere apprezzata col raziocinio) abbiano un senso senso, come gli animali, un sesto senso per cui sono immediatamente in grado di distinguere le persone di cui possono fidarsi e quelle di cui devono diffidare. Il paragone con gli animali non vuole affatto essere un'offesa - e, in verità, non lo è - per chi conosce gli animali.

Ho pranzato con amici che non vedevo da un pò di tempo. Della conversazione m'è rimasto un particolare che non riguarda la conversazione, ma una conversazione che ebbi molto tempo fa, alle prove d'ammissione ad un corso di cinema - a cui poi non fui ammesso. Quello che selezionava, mi domandò d'inventarmi una storia: lì, sul momento. Una storia per un corto. L'inventai. Dopo di che, mi chiese la morale, il senso della storia, cosa volevo comunicare attraverso la storia. Questa è una domanda a cui non c'è e non ci deve essere risposta. Una storia può raccontare a me una cosa, ad un altro un'altra, ad un altro ancora niente. Ci sono frasi senza senso a cui ciascuno di noi si sforza di dare un senso, ciascuno a modo suo: quelle stesse frasi, per quanto non avevano senso alcuno per il loro autore, acquistano per ciascuno di chi le legge un senso. Non è detto che chi racconta debba raccontare qualcosa che abbia un senso. Raccontare storie dotate d'un senso compiuto non è necessariamente un pregio - anzi, per molti versi, è un difetto. Peccato che non tutti la pensino come me - non solo in queste cose. Giugno quattordici.

Qualche volta succedono cose che ti ricordano che il tempo passa (e non sono solo i compleanni). Così accade che uno si domandi che cosa ha ottenuto nella vita di quello che voleva da ragazzo. Capita anche a me - a volte. Diciamo che per gran parte della vita ho pensato a che cosa volessi veramente. Per il resto, ho lavorato per ottenerlo - anche se, per la verità, quello che veramente vogliamo non lo sapremo mai, sinchè non ci capiterà davanti per caso - posto che mai accada. Credo che nella vita ci sia sempre un tempo per seminare e uno per raccogliere: il fatto è che il tempo della semina non finisce mai. L'altro fatto è che seminare non basta. Ci vuole qualcos'altro che si chiama "fortuna". Diciamo che ciascuno fa quello che può e che il caso ci mette (o non mette) il resto. Quando il caso è dalla nostra parte, si chiama "fortuna".

Da ragazzi si ha molta fantasia (chi più, chi meno). Da adulti non si ha nessuna fantasia (per lo più). Gli scrittori le loro più belle cose le hanno pensate da ragazzi, anche se le hanno poi scritte da adulti. La domanda è: perchè da ragazzi si ha quello che poi non si ha più? La risposta, secondo me, è: perchè allora la vita è ancora una promessa, un miraggio, non un fatto reale. Da ragazzi si può vivere ogni vita (nei sogni) perchè non se ne vive nessuna nella realtà. Da grandi si vive una vita - e non c'è più tempo per pensarne un'altra. E' come un'autostrada: quando l'hai imboccata, non puoi più tornare indietro, sicchè neppure val la pena di starci a pensare. Per uno scrittore si tratta di prendere tempo - visto che il tempo non lo si può fermare. E' per questo che il tempo, per ogni scrittore, è sempre troppo poco.

E' morto Antonioni. Ieri è morto Bergman. Forse non è un caso che due grandi, come si dice, se ne siano andati assieme. Non amo particolarmente il cinema di Antonioni. Una volta ho sentito un'intervista rilasciata credo sul finire degli annia Sessanta in cui diceva che ciò che conta per lui come regista non è il pubblico, nè il denaro, ma fare film che siano il più belli possibile. Concordo sui primi due aspetti, quanto al "bello", quello di cui trattava era un bello essenzialmente estetico, di maniera. I suoi film, specie gli ultimi, sono rarefatti, totalmente giocati sulle immagini: i dialoghi scompaiono, quasi la storia stessa scompare. Si direbbe che in questi film, oltre che per i dialoghi, non c'è più spazio per la bruttezza: ciò che è brutto è sublimato, sino a divenire bello. Io ho una concezione opposta, direi teatrale del cinema, una concezione, per così dire, alla Bergman. In Bergman quello che conta è il dialogo - l'immagine fa da cornice, amplifica il dialogo, ma non può sostituirlo. Tolti i dialoghi, i film di Bergman non avrebbero più anima, nè senso. Credo che Bergman e Antonioni rappresentino due maniere diametralmente opposte di fare cinema: forse soltanto Antonioni fa veramente cinema; Bergman, invece, fa teatro ma con un altro mezzo. Quanto a Bergman, qualcuno l'ha accusato d'essere un irrimediabile pessimista. Personalmente sono un pessimista e credo in generale sia difficile non esserlo. L'importante è non essere irrimediabilmente pessimisti. Detesto i pessimisti per partito preso - come anche gli ottimisti - d'altronde. Luglio trentuno.

Io ho una concezione romantica - o, meglio, idealistica del Pensiero. Io credo il Pensiero abbia una vita a sè ed i singoli pensatori non facciano che dargli una voce. Pensare in proprio non è, come molti ritengono, un atto di presunzione, nè è un atto d'ambizione. Pensare in proprio è l'esigenza intrinseca del Pensiero d'andare sempre oltre se stesso. Il Pensiero non ha bisogno di commentatori, ma di pensatori. Riassumo il mio punto di vista in una formula:
Il fine del Pensiero è quello di ripensare costantemente se stesso - questo non è da oggi, nè da ieri, ma è da sempre. Ogni opera del pensiero è tanto più proficua, quanto più è di stimolo per la produzione di nuovo Pensiero. Ogni pensiero, una volta pensato, deve essere espresso. Il Pensiero non appartiene a nessuno, tanto meno a chi l'ha pensato: il Pensiero appartiene soltanto a se stesso. Nessuno ha il diritto di mettere a tacere ciò che non gli appartiene.

Il Pensiero oggi ha davanti a sè un abisso. E' lo stesso abisso che ha dinnazi a sè l'Arte. Questo abisso non ha nulla a che fare col Pensiero. Questo abisso si chiama "mercato". Oggi è il mercato che pretende di decidere che cos'è e che cosa non è Arte, che cosa deve e che cosa non deve essere pensato. Il mezzo di cui si serve il mercato per signoreggiare l'Arte e il Pensiero si chiama "lavoro su commissione" o "committenza". Niente può essere pensato su commissione, nè nessun'opera d'arte piò essere concepita su commissione (niente, beninteso, che sia vera Arte o Pensiero) - il Pensiero e l'Arte sono frutto di un'esigenza interna dell'artista o del pensatore, o, meglio, un'esigenza interna del Pensiero e dell'Arte stesse: è il Pensiero o l'opera d'arte che vengono a te, quando meno te l'aspetti, quando neppure ci poni mente... Tutti gli artisti e i pensatori, ormai da tempo immemorabile, hanno dovuto lavorare per vivere, ma mai come oggi il vivere è stata l'unica ragione dell'Arte o del Pensiero. Parlo della generalità - non delle eccezioni, che pure vi sono.

Se c'è una cosa che detesto è l'arroganza. E la forma maggiore d'arroganza è quella che non vuole sentire ragioni. C'è una cosa che sopporto ancora meno: quando l'arroganza si lega all'ignoranza. Non che abbia nulla contro le persone ignoranti - spesso l'ignoranza non è una colpa ma una triste necessità. Quella che non sopporto è l'arroganza dell'ignoranza, quando l'ignoranza diventa un vanto, una professione di superiorità.

La felicità è una cosa che ti sorprende sempre - la felicità non ha ragioni, capita e basta, senza un motivo, come l'infelicità del resto. Spesso si ha ogni ragione per essere infelici, ma si è felici e spesso si hanno tutte le ragioni per essere felici e si è infelici. Ma la felicità è un attimo, sempre. Agosto 2007.

In genere la realtà non è mai all'altezza dei nostri sogni. Questa volta (una delle poche nella mia vita) la realtà è stata all'altezza dei miei sogni. Settembre tre.

La più grande battaglia è quella contro la mia testa. Il mio cervello è un grande dono, ma è anche un gande peso. Il pensare troppo appesantisce le cose. E quello di cui c'è bisogno, per essere felici, è la leggerezza. Settembre.

La morte fa sempre pensare alla vita - a quello che la vita può ancora essere - per ognuno. E a quello che non potrà mai più essere - per qualcuno. La morte, per chi rimane, è sempre un buon motivo per vivere. E, se non altro, serve a ricordarci questo: che non siamo ancora morti. Settembre.

Bisogna sempre sperare - ma mai troppo. Chi s'aspetta troppo, al novantanove per cento è deluso. Chi non s'aspetta nulla, in ogni caso è a posto. Oggi non voglio aspettarmi nulla. Settembre diciannove.

Il mio peggior difetto è che non so essere modesto: il fatto d'esserne consapevole lo rende, ad ogni modo, un difetto un pò meno difetto. E' che non mi riesce di considerare alcuno come un Maestro - riservandogli la devozione che si deve ai Maestri. Io tratto tutti da pari - anche i Maestri. Io critico - quando non condivido. E non dico sì solo perchè lo dice un Maestro. La cosa buona è che, come Maestro, non chiedo quello che non dò come allievo.

M' insegnano che il cinema è un industria. Io dico: allora non è arte. M'insegnano che l'arte è metodo. Io dico: il metodo non fa l'arte, anche se l'arte ha bisogno d'un metodo. M'insegnano che devo calcolare e prevedere - perchè tutto ha un costo e i costi vanno soppesati sin dal principio. Io dico: non voglio essere parte di un industria, d'un ingranaggio, non voglio fare film per gli altri, ma per me. Io credo che i migliori film siano quelli che uno fa per sè: se piacciono anche a qualcun altro, tanto di guadagnato. Ciò che importa, per me, è non essere un regista o un artista di professione: tutto ciò che si fa per denaro è sottratto all'arte.

Sino ad ora sono stato su un piedistallo, su cui m'ero messo da solo - è giunto il momento di confrontarmi con gli altri. Bisogna non soltanto parlare, ma anche imparare ad ascoltare, stando in silenzio.

L'ottimismo è una cosa che mi carezza, a volte, come il vento che ti percorre la faccia: ma poi va, come se ne va il vento. Ad ogni modo, non credo uno nasca ottimista: lo si diventa, con gli anni - ammesso lo si diventi.

Nella felicità ha una parte essenziale essere figli del proprio tempo: chi è quello che il suo tempo vuole che sia è veramente felice. Chi non lo è, può solo aspettare un altro tempo.

L'immodestia ci rende antipatici. E a nulla importa l'essere buoni, se si è immodesti: rimmarremo soltanto dei buoni antipatici.

Se c'è una regola che mi sono imposto negli anni è quella di non fidarsi mai degli altri e, soprattutto, di non aspettarsi mai niente da loro. Nessuno fa niente per niente e, se lo fa, è soltanto per sè. Ma se c'è una cosa umana è quella di derogare a questa regola. Il fatto è che, ogni volta di più, mi convinco che la regola è giusta.

Se c'è una cosa che mi commuove è la bontà. E questo perchè è una cosa rara. A volte ti sembra di vederla - anche se non c'è. Forse perchè vorresti vederla. Forse perchè vorresti commuoverti - per una volta. Il fatto è che siamo degli idealisti, anche se ci sforziamo di essere dei realisti.

Nessuno chiede la sincerità a nessuno. Ti chiedono di essere quello che devi: un buon lavoratore, un buon marito, un buon figlio, un buono studente... Ma nessuno ti chiede di essere veramente te stesso. Del resto, questo non ha nessuna importanza, tranne che per te - e, forse, neanche per te. L'arte, dal mio punto di vista, è un modo per essere sinceri - forse l'unico. Credo di essere stato veramente sincero soltanto in quello che ho scritto. Conoscere un artista come persona fa tutt'uno col conoscerlo come artista. Amare un artista come persona fa tutt'uno con l'amare la sua arte - questo, beninteso, per quegli artisti che non esercitano l'arte come un mestiere.

Questa, si dice, è la società dell'apparenza. Rousseau direbbe che ogni società in quanto tale è la società dell'apparenza, ossia è dominata dall'amor proprio. L'amore di sè è l'istinto di sopravvivenza; l'amor proprio è l'istinto a primeggiare e, come tale, implica altre persone su cui esercitarsi. Ad un certo punto l'uomo ha cominciato a guardare se stesso, a guardarsi dal di fuori, così come potevano guardarlo gli altri: a quel punto le sue azioni si sono fatte meditate, i suoi gesti studiati, a quel punto ha cessato d'essere istinto, d'essere se stesso. E' allora che l'essere ha iniziato a separarsi dall'apparire. La società d'oggi è figlia della consapevolezza, direi d'un eccesso di consapevolezza.

Ieri ho visto un abbraccio - ad un corso di regia. Ne ho visto uno - e me ne ha ricordato un altro, vero, di tanti anni fa. Ottobre diciotto.

Oggi sono pessimista. Per me essere depressi ed essere pessimisti è la stessa cosa. Non riesco a concepire la depressione se non come pessimismo. Ottobre ventidue.

Il bello nella vita è non sapere quello che troverai. Andare ad uno spettacolo senza sapere che cosa vedrai, incontrare una persona di cui non sai nulla, andare in un posto a te completamente sconosciuto..... So che nell'uomo c'è una brama di controllo assoluto, la necessità di sapere anticipatamante, di modo da pianificare, da studiare a tavolino le sue future mosse... So che nell'uomo c'è il terrore di farsi cogliere impreparato. Ma c'è un'altra forza ugualmente grande, che è la brama d'avventura. E' come fare un viaggio pianificato a tavolino, o fare un viaggio itinerante in tenda e sacco a pelo: nel primo caso vai in un posto, nel secondo fai veramente un viaggio. Tutti noi, da giovani, abbiamo fatto dei viaggi, ma da adulti ce ne siamo dimenticati.

Scontrarsi con la dura realtà è duro. Per uscirne indenni occorre essere ancora più duri. La vita educa alla durezza ogni giorno. Ottobre ventiquattro.

Ho visto "Il grande capo" - a ingresso libero, ovviamente - l'ultimo film di Lars Von Trier. Debbo dire che è un bel film, per quanto non sia il migliore e per quanto io non gradisca le commedie. Quello che mi piace, nei film di Von Trier, è che in molti di essi non si esprima un pensiero determinato: ad esempio, "Dogville", che trovo assai bello, non ha un senso compiuto, tanto che lo spettatore deve riuscire a darvi lui stesso un senso. Ne "Il grande capo" si sovrappongono varie possibilità d'interpretazione. Al di là del contenuto, è questa possibilità lasciata allo spettatore che apprezzo. Altra cosa: il regista volutamente fa vedere se stesso riflesso davanti al vetro del palazzo dietro al quale sono collocati gli attori. Trovo sia un modo per far uscire il regista dall'ombra. Di solito il film, nell'immaginario del pubblico, è degli attori, cioè di quelli che lo recitano. Von Trier ci dice: un film è innanzitutto del suo regista. Von Trier ha ragione e, in effetti, non c'è un suo film che non sia un suo film, ma Von Trier è un'eccezione - e questo perchè il cinema, per chi non è Von Trier, o non ha il coraggio di Von Trier, è una catena di montaggio. Ottobre ventisei.

Sono andato a teatro. Ho ascoltato molte parole - troppe parole, per i miei gusti. E' soprattutto, troppi concetti. Credo che bisogni, anche a teatro, raccontare storie, e non illustrare concetti attraverso le parole. Devono essere le storie a parlare. E quello che si dice, va detto non dicendolo. Ma, forse, questa è l'opinione di uno che non va mai a teatro. Ottobre ventisette.

Noto una cosa: gli artisti amano guardare le opere degli altri artisti. I registi guardano film di altri registi, passano molto del loro tempo al cinema. I drammaturghi vanno a teatro. E così via. Io, che probabilmente non sono mai stato un artista e non lo sarò mai, non amo nulla di tutto ciò. Per me l'arte è un modo d'esprimermi. Non m'interessa l'espressione altrui, m'interessa la mia. Non m'interessa guardare le opere degli altri, m'interessa che gli altri guardino le mie. Del resto detesto le sale, dove c'è troppa gente, troppo rumore, troppi estranei, troppi fattori che annullano o ridimensionano l'emozione. Se ti guardi un film a casa tua, sulla tua poltrona, ne hai un'emozione, se lo guardi assieme a altri sessanta estranei o più, ne hai un'altra o non ne hai affatto. Quando uno va al cinema (parlo per me) è per portarci la ragazza, o, forse, per trovarna una - ma, in questo caso, non vai al cinema per vedere un film. Quello che dico è che i film sono fatti per essere visti a casa propria, sulla propria poltrona, da soli: è solo così che producono un effetto e che sono quello che debbono essere.

Se c'è una cosa per la quale occorre della fantasia è scrivere commedie. Per scrivere un dramma, invece, basta guardarsi attorno. E' per questo che per me la commedia non è arte: l'arte è vita, la commedia è finzione. La finzione ci fa dimenticare della vita, il dramma ce la ricorda ad ogni istante.

Qualcuno m'ha detto che quello che scrivo è spesso troppo forte - specie per una donna. E me l'ha detto una donna. Il fatto è che io credo che la vera essenza di ogni cosa salti fuori solo nelle situazioni estreme: noi normalmente ignoriamo che cosa siano Amicizia, Amore, Odio, che cosa veramente possano tutte queste cose. Oserei dire che, normalmente, noi ignoriamo quello che siamo. Il compito dell'Arte consiste, a mio avviso, nel porre lo spettatore dinnanzi a quelle situazioni estreme che, nella vita dei più, si pongono assai raramente - se non, addirittura, mai. Il compito dell'arte è quello d'essere sgradevole.

Andare al cinema mi convince ogni volta di più che è infinitamente meglio farlo il cinema che andarlo a vedere. E' come una statua: lo spettatore non riuscirà mai ad avere soltanto la minima idea della gioia che dà fare una statua. Quando hai fatto l'opera, cessa il piacere dell'artista, e inizia quello dello spettatore: ma è un'altro piacere.

Il corpo di certe persone è un grido disperato. Sembra che sia l'ultima parola rimasta loro. Il corpo dice quello che la loro bocca non dice. E gli occhi degli altri vedono quello che le loro orecchie non sentono. Credo che non si finisca mai di conoscere una persona. E, spesso, neppure si sa da dove iniziare. Vorremmo aiutare, ma non sappiamo come. E, del resto, c'è chi non vuole essere aiutato.

Oggi ho notato che scrivo alla lavagna in modo discendente: la linea devia verso il basso. Una mia alunna m'ha fatto notare che è segno di pessimismo. In effetti, credo che questo sia soltanto un caso - anche se, effettivamente, sono un pessimista.

Una cosa è cambiata negli anni: una volta, quando una cosa andava male, pensavo che così doveva andare e che, alla fine dei conti, ciò che era andato male sarebbe andato bene. Oggi non credo più nei disegni provvidenziali: se una cosa è andata male, è andata irrimediabilmente male.

Sono stretto in una morsa terribile: fra la sfiducia negli uomini e la sfiducia in Dio, o, meglio, fra un pessimismo nei riguardi degli uomini ed uno nei riguardi di Dio. Il primo pessimismo è alimentato dalla frequentazione degli uomini, il secondo dalla conoscenza dei testi sacri: chi non ha letto non potrà mai dubitare, ma chi ha letto (oso dire) non può non dubitare.

Sta venendo meno la mia fede - ogni giorno di più. Per me avere fede significa credere nella mia buona stella. Ho sempre pensato che, per quanto accidentalmente fosse offuscata, la mia stella un giorno avrebbe brillato. Oggi inizio a dubitarne.

Ho sentito pareri contrari, ma io rimango dell'opinione che solo la tragedia (o il dramma, che è l'erede della tragedia classica) sia arte. La commedia non è arte: è finzione.

Credo di essere sempre stato giudicato, ma quasi mai capito - e mai totalmente.

Se c'è un enigma, per me, è la natura umana: ogni volta che pensi di conoscere, ti accorgi d'esserti sbagliato. Spesso non c'è nulla di razionale nella condotta delle persone, sicchè, ogni previsione razionale si riduce ad un buco nell'acqua. Il fatto è che, a differenza che per la razionalità, quando si tratta di irrazionalità, ciscuno è irrazionale a suo modo.

Le persone mi deludono sempre - con poche eccezioni. E' solo questione di tempo e tutti i templi crollano - anche i più belli., anche quelli che sembrano destinati a non perire mai. Dicembre undici.

Mi sono iscritto ad un corso di sceneggiatura: dinnanzi a questi corsi, mi rendo conto che l'Arte non esiste più. Oggi l'artista applica un metodo, scrive a comando, su commissione, lavora le sue tot ore come ogni scribacchino. L'Arte non vuole più il suo tributo di sangue e lacrime, di vita vissuta e perduta. Mi domando: un prodotto fatto e concepito per il mercato non sarebbe meglio chiamarlo col suo nome, cioè "prodotto", e non opera d'arte? Mi domando: si può insegnare ad un uomo ad usare un metodo, ma si può insegnare ad un uomo ad essere un artista? Ancora: l'Arte ha un metodo?

Siamo nel 2008: è venuto l'anno che doveva venire. Sarebbe presuntuoso dire che, dinnanzi ad un anno nuovo, uno non ha nuove speranze.

Il mio interesse artistico, che, sino ad oggi, è stato concentrato sulla mia vita, sta evolvendo verso la vita altrui. Il fatto è che l'unico modo corretto per raccontare una vita, è descriverla. Non si può inventare una vita: la si può solo descrivere. Un film che voglia essere biografico non può che riguardare personaggi viventi. Un film biografico non può che essere un documentario. La pletora di film biografici che circolano (specie fiction tv) sono, dal mio punto di vista, intrinsecamente falsi (oltre che, oso dire, moralmente scorretti). Dire il falso è moralmente scorretto: cambiare la faccia ad un uomo è già un modo di dire il falso. Io non ho problemi (moralmente parlando) ad inventare una storia: ho problemi (sempre moralmente parlando) a raccontare una vita che non sia la mia.

Non avevo pratica di bolg, nè sapevo cosa fossero: così ho iniziato a daci un'occhiata: è strano come la gente abbia bisogno di raccontare se stessa, di mettersi in qualche modo in vetrina. Il fatto è che questo accade senza avere qualcosa da vendere o da pubblicizzare. Voglio dire: un conto è farsi un sito web per crearsi contatti professionali, per mostrare il proprio lavoro e potersi in qualche maniera pubblicizzare; un conto è raccontare la propria vita a degli estranei. La gente ha bisogno di raccontarsi: solo per questo, senza altri fini o scopi.

La bellezza ha una funzione curativa. Basta vederla, soltanto vederla (meglio se da lontano), e uno sta meglio. Dico: vederla, una volta ogni tanto, da lontano, perchè, ad avercela davanti ogni giorno perde ogni effetto curativo.

Noto due cose: una volta, quando leggevo qualcosa (tipo un pezzo teatrale o un romanzo, o, anche, quando guardavo un film) mi facevo prendere dalla cosa, dalla storia, etc. Oggi sono molto più distaccato: quello che mi dico sempre è: io potrei fare meglio? Come potrei fare meglio? E' segno che la passione sta diventando una professione - ed è un cattivo segno. L'altra cosa è che detesto l'intreccio eccessivo: le storie con intreccio sono difficili da pensare (e da scrivere), ma, soprattutto, disperdono l'emozione. E' lo stesso punto di vista che nutro nei riguardi del romanzo: è troppo lungo. Per mio conto è meglio il racconto, perchè lo leggi d'un botto.

Noto un fatto strano: a livello conscio, mi riesce soltanto di concepire drammi; a livello inconscio, i miei sogni sono surreali e grotteschi. Direi che mi riesce di ridere solo in sogno. Di questi sogni, però, qualche cosa ho ricordato, e ho scritto: sicchè ne è saltato fuori qualcosa di comico.

Sperare è umano. Come sperare che le speranze non siano vane.

Io ho due regole, nello scrivere, due sole: battute brevi, ed evocare, piuttosto che dire.

Io credo di essere, al fondo, una persona buona, ma, nonostante cerchi d'esserlo, vengo sempre frainteso, e finisco per apparire, mio malgrado, un cattivo (o, come si dice, uno stronzo). Per molti versi mi riconosco in molte delle cose che Rousseau diceva di se stesso.

Ho visto - o, meglio, ci hanno fatto vedere ad un corso di sceneggiatura che seguo - un cortometraggio (dodici minuti) che ha suscitato il plauso e l'approvazione di tutti i partecipanti, oltre ad avere (come dicono) fatto il pieno di premi, etc. Ora, debbo dire che a me nè è piaciuto, nè l'ho capito. Non credo il mio parere valga più di quello di un altro, ma, in quella sala, mi sono reso conto d'essere l'unico a rappresentare il pubblico medio, vale a dire il pubblico che non è cinefilo, che non passa la maggior parte del suo tempo libero in una sala cinematografica, o a guardare film in dvd, etc. Io dico: questo film non era costitutivamente fatto per il pubblico medio, il quale, per capirlo a pieno, avrebbe dovuto vederlo almeno due volte. Io dico: il pubblico medio raramente (o mai) va a vedere un film due volte, ma se, dopo la prima proiezione, non l'ha capito, conclude: questo film non m'è piaciuto. Io credo i film debbano essere concepiti per il pubblico medio, se non vogliono finire per essere auto-referenziali o puri esercizi di stile. Parlando di pubblico medio, questo è interessato soprattutto alle storie e non è in grado di afferrare molte citazioni colte che costellano i film cosiddetti "d'Autore". Ho focalizzato anche un'altra circostanza: io, a differenza di molti altri (che mirano a lavorare nel cinema), non sono un amante del cinema in sè, della forma artistica chiamata "cinema". Per me il cinema è soltanto un mezzo d'espressione fra gli altri possibili, con questo vantaggio: che è il più immediato, quello più facilmente comprensibile al grande pubblico, quello che non necessita di un particolare sforzo d'attenzione o dispendio di tempo (come, invece, la letteratura). Io posso scolpire, o scrivere un libro, o un dramma teatrale: ognuna di queste forme artistiche è soltanto un mezzo d'espressione. Ciò a cui miro è esprimermi. Quello che conta non è come dici le cose, ma dirle. Penso che per molti sia diverso: molti sono interessati al mezzo e non al contenuto. Per molti la passione del cinema è passione del mezzo.

Come drammaturgo vedo drammi dappertutto: da un piccolo dettaglio drammatico indovino un personaggio tragico. In realtà, spesso, non c'è nessun personaggio tragico, a parte quel piccolo dettaglio drammatico.

Amo due cose nelle canzoni di Leo Ferrè. La prima: che non sono solo canzoni, ma poesie; la seconda: che sono poesie musicate. Ci sono due cose, che evocano senza dire: la musica (intedo: la musica vera, cioè quella non parlata) e la poesia. Ferrè le mette (dico "mette" e non "metteva" perchè gli artisti non muoiono mai) assieme - come pochi altri.

Uno oggi è vivo e domani è fra la vita e la morte. Tutto ci ricorda che si vive per un caso - e che si muore per un caso. E che quello che la vita dà, come l'ha dato, se lo può riprendere.

Mi hanno propinato una triade di corti tedeschi come veri capolavori. Dal mio punto di vista sono meri esercizi stilistici con l'unico effetto di spiazzare lo spettatore. Al più direi che sono carini (anche se, almeno alcuni, di difficile comprensione per il pubblico medio), ma non certo delle opere d'arte. Dopo che li hai visti, sei esattamente quello di prima: la tua visione del mondo, quello che sei, non ne è stato minimamente toccato.

Esistono due drammi: il dramma di chi ha troppe possibilità, e deve scegliere, e il dramma di chi non ne ha nessuna. Per ciascuno, ovviamente, il dramma maggiore è il proprio, ma per chi li ha provati tutti e due, il dramma maggiore è il primo. Infatti, chi non ha possibilità, nemmeno può avere rimorsi.

Krzysztof Kieslowski, il grande regista polacco, disse: "La tragedia è lo scontro fra la sfera morale e quella divina. Nella nostra società, che ha abbandonato Dio, non esistono più tragedie, ma solo grandi drammi". Condivido.

Noto una cosa: ad un certo grado di quello che scrivo, i miei personaggi ripetono spesso le stesse battute. Questo, a ben meditare, non credo sia segno di una mancanza: è il segno che, quando scrivo, parto da una visione del mondo e della vita, e non scrivo e basta.

Non credo la lettura di un libro o la visione di un certo spettacolo, etc. possa indurre in noi una certa visione del mondo e delle cose: credo, invece, che la lettura di un libro, etc. ci possa talora aiutare a comprendere meglio qual è la nostra visione del mondo e delle cose. Per esempio, ci sono molte frasi scritte da altri in cui mi riconosco, forse molto di più che in frasi che io stesso ho scritto. Amo molto alcuni aforismi di Nietzsche, ad esempio questi (cito a memoria:) Qual è il compito di caiscuno? Diventare se stesso. / Che cosa rende eroici? Muovere incontro al proprio supremo dolore e, insieme, alla propria suprema speranza. / Il rispetto esige distanza. / Che cosa amiamo negli altri? Le nostre speranze, etc.

Il personaggio tragico non sa mai ridere di se stesso, cioè è privo di ogni auto-ironia. E anche l'Autore tragico. Ogni Autore tragico si prende terribilmente sul serio.

I miei personaggi portano sulle proprie spalle un grosso peso concettuale e, questo, forse, li rende astratti e lontani. Il fatto è che dietro ogni opera letteraria (o artistica in generale) che non sia mero intrattenimento ci deve essere una certa concezione della vita e del mondo. La mia filosofia dell'esistenza non si esprime, come in altri filosofi, a livello filosofico, ma letterario. Come filosofo sono e mi considero un logico-teoreta e penso che la filosofia, nel momento in cui vuole presentarsi come scienza (cioè nel momento in cui aspira all'universalità ed alla necessità), non può essere altrimenti da questo. L'Esistenzialismo non è filosofia. Molti autori considerati tradizionalemnte dei filosofi, dal mio punto di vista non lo sono affatto o solo parzialmente.

Per quanto tutti i miei personaggi, per una ragione o per l'altra, non siano felici, ciò non significa che io sia totalmente pessimista circa la felicità. Io non dico che la felicità è impossibile, ma dico che: 1) la felicità è questione di attimi (e, come tutti gli attimi, l'attimo dopo passa), 2) occorre fare uno sforzo molto maggiore per essere felici piuttosto che per essere infelici. Da ultimo, credo che, in ogni caso, per essere felici, bisogni essere pronti alla felicità. E si è pronti solo ad un certo punto della vita, a quel punto in cui abbiamo fatto la pace con noi stessi, col mondo e anche con Dio.

La fortuna è una ruota che gira: prima o poi girerà anche dalla tua parte. E' solo questione di tempo. L'ho sempre pensato, ma non l'ho mai detto, neanche a me stesso - per scaramanzia. Non lo dico neanche adesso - sempre per scaramanzia.

Ogni volta che siamo sinceri ci esponiamo ad un rischio. E, ogni volta, speriamo che non sia stato vano aver corso quel rischio. Il rischio è quello di essere se stessi, nel bene e nel male, nelle proprie forze e nelle proprie debolezze. Il rischio è quello di essere giudicati per quello che siamo - dietro la maschera. Oggi ho corso quel rischio.

Il pessimismo ha sempre ragione: so oggi quello che ho sempre saputo. Ma credo di aver imparato tutto quello che potevo imparare dal pessimismo, quindi, per il futuro, ho deciso che sarò ottimista - nonostante tutto.

La morte. La sua ombra lunga. Una persona parla, è felice, sorride, vive, ma non sa che il giorno seguente, ad una certa ora, l'aspetta l'ultimo appuntamento della sua vita, un appuntamento che era segnato nel suo destino sin dall'inizio dei tempi. Anche la morte, in fondo, fa parte della vita. Requiem. Oggi, ventisei maggio 2008.

Non bisogna mai essere sinceri. Non ne vale la pena. Mai.

Le persone m'hanno sempre deluso, tranne poche - le solite. Probabilmente anch'io, senza neppure accorgermene, ne ho deluso altre. Pavese diceva "Sono onde di questo mare". C'è un aforisma di Nietzsche che recita: "Che cosa amiamo negli altri? Le nostre speranze". Io ho una sola regola: non voltarmi mai indietro.

La fortuna è una ruota che gira. Pensavo avesse girato storta, ma ogni discorso va fatto quando la ruota ha smesso di girare - e non ha ancora smesso.

Un complesso di circostanze favorevoli. Quante non ne avevo mai visto prima tutte assieme. Questo mi preoccupa - e, forse, anche mi imbarazza.

Da ragazzi ci dicono che per essere scrittori occorre fantasia. Credo sia la cosa più falsa che si possa dire. Per essere scrittori occorre saper vedere le cose, non saperle inventare. Dal mio punto di vista lo scrittore non ha nè deve avere fantasia: ha soltanto uno sguardo che scruta nel profondo e che vede anche quello che gli altri non vedono. La differenza fra uno scrittore e una persona normale o, anche, fra un buono e un pessimo scrittore, è soltanto una questione di sguardo.

Lo scrittore ha sempre di fronte una cosa che nella vita normale ponderiamo soltanto una volta ogni tanto - e neanche tanto quanto dovremmo: questa cosa è la possibilità. Noi scegliamo, ma le nostre scelte non sono mai infinite e si collocano sempre entro una rosa di possibilità già date (siamo maschi piuttosto che femmine, italiani piuttosto che francesi, milanesi piuttosto che romani, poveri piuttosto che ricchi, etc.). Ma, a monte, le possibilità erano pressocchè infinite: potevamo nascere o non nascere, i nostri genitori potevano conoscersi o meno, etc. Chi ha scelto per noi? Il caso, o, se qualcuno non crede al cieco caso, Dio. Lo scrittore, nel suo lavoro, è Dio, ed ha la stessa responsabilità dinnanzi hai suoi personaggi che ha Dio. Può farli nascere oppure no, farli incontrare oppure no, farli morire oppure no, essere felici oppure no, etc. Il dramma di uno scrittore, dal mio punto di vista, è scegliere il finale. Quando scegli il finale hai sempre davanti più finali possibili, ma si tratta di sceglierne uno solo. Puoi optare per un finale aperto, ma questo non è sempre possibile. Dunque, devi scegliere. E, in quel momento, senti addosso tutto il peso della scelta, quel peso che grava anche sulle spalle di Dio, ammesso che vi sia un Dio. Personalmente, quando scelgo un finale, tendo a scegliere finali tragici per due motivi: per un fatto meramente estetico, e perchè ho una visione pessimistica delle cose e della natura umana. Io credo il lieto fine, nella vita, sia piuttosto raro e, dunque, se voglio essere realistico, non posso assumere il lieto fine in quello che scrivo. Del resto cerco di lasciare anche spazio alla speranza. Perciò, se qualcuno perde e soccombe, generalmente rimane qualcun'altro che sopravvive e può ancora vincere. La felicità, quanto meno a livello di speranza, rimane sempre. E questa, da sola, è una buona ragione per continuare a vivere.

Ho visto degli esami di maturità - erano i primi che vedevo dopo i miei. In effetti della mia maturità non ricordo nulla, come, in generale, degli esami che ho dato nella mia vita. Credo gli esami non significhino nulla - anche se, quando dobbiamo darli, significano qualcosa - e, per qualcuno, anche tutto. Come professore la cosa più difficile è sempre dare un voto. Dare un voto vuol dire, in un certo senso, giudicare una persona. E la cosa più difficile, in ogni caso, è giudicare le persone. Io preferisco insegnare e basta. Ma, purtroppo, parte del lavoro degli insegnanti è quella di dare voti: oserei dire che questa è la parte più importante, anche (e purtroppo) per gli studenti. Se ricordo la mia gioventù, ricordo di non avere mai studiato per un voto, nè letto qualcosa per un voto: in genere ho sempre letto quello che mi pareva, anche se non richiesto, e studiato quello che mi pareva. E alle superiori ho anche pagato il peso di queste scelte. Voglio dire che non ho mai trovato un professore che apprezzasse gli studenti come me. Del resto, da professore, non ho mai incontrato (sino ad ora) uno studente che fosse come ero io allora.

La felicità è un miraggio. Io credo non esista la felicità: esiste l'illusione della felicità. Quest'illusione può durare un'ora, una settimana, un mese, un anno, ma dopo quell'ora, quella settimana, quel mese o quell'anno, ti rendi conto che era soltanto un'illusione.

Tutto quello che accade ha un senso - o dobbiamo trovarlo. Io credo il dolore serva a prepararci a gioie maggiori: quanto più hai sofferto, tanto più domani potrai gioire. F., ormai molti anni fa, diceva: "la vita è come una montagna: dopo ogni salita, c'è una discesa". In effetti, dopo tutto e inspiegabilmente, oggi sono ottimista.

Di recente m'è stato detto (scritto) che tutti gli uomini (esseri) sono uguali. Da un punto di vista meramente astratto e razionale, quest'affermazione è indubbiamente vera, come testimoniano le carte dei diritti, etc. Tuttavia, da un altro punto di vista (forse comprensibile soltanto a pochi), non tutti gli uomini sono uguali: esistono uomini che meritano di più e uomini che meritano di meno. Io credo che chi ha sofferto molto e ha dovuto ingoiare molta "merda" nella sua vita, merita qualcosa di più dalla vita, avanza qualcosa nel suo saldo con la sorte. Ed è giusto che la sorte, prima o poi, pareggi il conto. Invece accade spesso e volentieri che chi merita di meno ha di più, e chi meriterebbe non ha nulla. E accade che la vita continui a togliere a chi meriterebbe ed a dare a chi non merita. Questa è quella che io chiamo "ingiustizia" ed è una delle cose che più mi risultano insopportabili. Il primo testo che ho scritto era su quest'ingiustizia e sulla rabbia che produce in chi la subisce. Da allora ho imparato che la rabbia non va coltivata come si coltivano le aiuole nel proprio giardino ed esercitata fisicamente, ma va trasfigurata in qualcos'altro. Sono molti i figli della rabbia, ma, fra questi, quelli che ne sono sopravvissuti, sono quelli che hanno saputo nei più svariati modi trasfigurarla in altro. Ai figli della rabbia - anche a quei suoi figli che l'hanno dimenticata!

A volte, nella vita, si ha la spiacevole sensazione d'essere tornati al punto di partenza, nonostante i molti passi compiuti. E' come se tu avessi percorso una circonferenza che t'ha riportato, dritto, al punto di partenza. Il risultato è che, pur muovendoti, è come se tu non ti fossi mai mosso.

In un film, generalmente, si tende ad annullare la presenza della cinepresa, facendone un elemento esterno alla narrazione: l'occhio della cinepresa viene fatto coincidere con quello dello spettatore o, meglio: l'occhio dello spettatore viene fatto coincidere con quello della cinepresa, come se lo spettatore fosse lì, a guardare coi suoi stessi occhi. Io penso questo sia un errore: occorre che lo spettore sappia che, nel film, c'è qualcosa che lui non vede (operatore, direttore della fotografia, regista, autore, etc.). Occorre ricordarglielo in ogni momento - perchè un film non è mai degli attori (o non è solo degli attori), ma è innanzitutto di qualcun'altro che non si vede. Per questo perdiligo telecamera a mano, inquadrature mosse, rapidità di zoomate e di panoramiche, etc. Questa, per chi la fa, dal mio punto di vista, non è soltanto una scelta stilistica, ma è una scelta concettuale. E' la scelta per un film d'autore.

Un uomo di colore che incontri per la strada ti dice: "non ho nulla, sono rimasto senza denaro. Mi hanno sequestrato tutta la merce dopo che l'avevo appena comprata. Voglio tornare a casa, ma la mia ambasciata è in un'altra città, lontana da qui."Cosa fai? Non è questione di aiutarlo o meno: è questione di crederci o meno. Così lo aiuti soltanto a metà di quello che avresti potuto se soltanto fossi stato certo delle sue parole. Cos'è questa società che ha reso la bontà un rischio?

Obama ha vinto. Indipendentemente da ciò che farà è già una vittoria che abbia vinto - e non solo per gli USA.

E' sempre più difficile insegnare la Filosofia degli altri quanto più si cresce come filosofi. Avverto questa difficoltà come non mai prima. Dover difendere da obiezioni (talora giuste) punti di vista che tu stesso non condividi è una cosa terribilmente imbarazzante. Un filosofo dovrebbe difendere soltanto il proprio punto di vista - perchè quella è l'unica cosa di cui è tenuto a rispondere. Quella che un filosofo può insegnare, rispetto agli altri autori, è soltanto una filosofia critica. Per il resto, insegnare la Filosofia non dovrebbe spettare ai Filosofi, ma ai professori di Filosofia.

Scrivere su commissione snatura lo scrivere: rende l'Arte mestiere. La vera opera d'Arte è frutto dell'ispirazione, che giunge quando vuole, spesso quando tu non vuoi. Se riesci a scrivere su commissione, in tempi rapidissimi, non vuol dire che sei un artista o hai scritto un'opera d'Arte: vuol dire che hai del mestiere. Anche questo, però, è già tanto e non è da tutti - almeno al giorno d'oggi.

2009: nuovo anno che viene. 2008: vecchio anno che va. C'è chi va, c'è chi viene, e c'è chi rimane - spesso con le solite speranze. Al nuovo anno che sarà!

Ho una regola generale: non guardarmi mai indietro. Oggi, in via eccezionale, ho deciso di fare la prova del nove, nel caso mi fossi lasciato qualcosa alle spalle.

Oggi si sta combattendo una battaglia per la libertà. Il quesito è: siamo noi liberi o qualcun'altro è il padrone della nostra vita, sia esso Dio, la Chiesa o lo Stato? Qualcuno dà a questa battaglia un altro nome e ci vede un'altra posta in gioco, ma questo è quello che io vedo - e non sono l'unico. Questa battaglia, però, coi suoi bagliori di baionette, ci fa dimenticare che in questo momento qualcuno sta morendo - anche se l'ha scelto, oramai molti anni fa. L'unica obiezione legittima, secondo il mio punto di vista, è: era davvero questo quello che lei avrebbe voluto? Febbraio sei.

Non si ha più rispetto dinnanzi a nulla, nemmeno dinnanzi alla morte. E quelli che hanno meno rispetto sono quelli che pretendono d'averne di più. Febbraio nove.

Non nascondo a me stesso, nè agli altri, d'essere profondamente anti-clericale. Il che non vuol dire anti-Cristiano, altrimenti dovremmo concludere che i Protestanti non sono Cristiani. Se cerco di rendermi ragione del mio anti-clericalismo, concludo che è essenzialmente per due motivi: perchè sono avverso per principio all'Autorità e a chi in generale ritiene d'avere il monopolio del vero, del giusto, etc., e perchè sono avverso, ancor di più, a chi eleva l'ignoranza a principio. La Chiesa, nella sua storia e ancora oggi, ha fatto entrambe queste cose. Al Cattolico praticante che obietta, io dico: quanto sai tu delle Sacre Scritture? Quanta perte della Bibbia hai letto? Quanto conosci della Storia del Cristianesimo? Scommetto che la maggior parte non ha mai letto nulla, tranne quello che dice il prete in Chiesa o quanto si ricorda del Catechismo che ha ascoltato da bambino. Io non dico che sia colpa sua, dico che c'è una volontà nascosta che ha voluto che lui non sapesse, che non leggesse, che non si documentasse. Io dico che è copa sua, perchè al giorno d'oggi, in cui chiunque può documentarsi, leggere, conoscere, l'ignoranza è più che mai una colpa. Gli Illuministi dicevano che la conoscenza è innanzitutto una responsabilità, perchè ci impone delle scelte, e che l'ignoranza è una comodità, perchè ci consente di adagiarci sulle scelte altrui. Non voglio pensare che il Cattolicesimo di molti sia ancora oggi soltanto una scelta di comodo, ma sta ai Cattolici dimostrarmi nei fatti il contrario. Con questo non voglio dire che non mi sia capitato (più in passato che oggi) d'ammirare la Chiesa, ma si trattava di una Chiesa non ufficiale, una Chiesa per lo più ignorata dalla maggioranza dei Cattolici. Ho ammirato, ad esempio, don Zeno e la comunità di Nomadelfia, da lui fondata, don Milani, ammiro don Ciotti e l'associazione Libera, etc. In definitiva credo d'aver ammirato alcuni uomini d Chiesa, ma non la Chiesa stessa. Anzi, forse non ho neppure ammirato alcuni uomini di Chiesa, ho ammirato semplicemente alcuni uomini.

Se c'è una cosa in cui l'ignoranza regna sovrana, sono le Religioni. Non mi riferisco alla propria, che si suppone il credente dovrebbe conoscere (e in certe religioni è così: ad esempio nell'Ebraismo), ma a quella altrui. Ci nutriamo tutti di luoghi comuni - e quest'ignoranza reciproca è la principale fonte di intollerenza. Credo dovrebbe essere compito dello Stato, quale che sia, insegnare a livello curricolare, con docenti appositamente formati, la Storia delle religioni. La Religione, come è insegnata oggi nelle scuole, non serve a nulla: non serve a conoscere i testi della religione Cattolica, nè la Storia del Cristianesimo, e non serve, tantomeno, a conoscere la Religione altrui. Oggi l'ora di Religione non fa altro che alimentare i luoghi comuni con dibattiti inconcludenti - a parte l'opera meritevole di alcuni insegnanti che fanno quello che non sarebbero tenuti a fare.

Occorre distinguere fra questione di principio e efficacia d'una legge o d'una azione politica. Se una legge o un'azione politica non consegue l'effetto che s'è proposta, non ha neppure senso affrontare la questione di principio se quell'azione o quella legge era giusta o meno: era semplicemente inutile. E, in quanto inutile, non andava presa. La legge che consente ai medici di denunciare i clandestini alle autorità di pubblica sicurezza è inutile, oltre che dannosa. Per demolire questa legge, al di là delle crociate di principio, è sufficiente la constatazione che non conseguirà il suo effetto. Infatti, i medici continueranno a non denunciare, con la differenza che molti ammalati, anzichè rivolgersi al sistema sanitario nazionale, si rivolgeranno alla sanità clandestina, o, addirittura, non si cureranno. Alla stessa maniera, prim'ancora di discutere se era giusto o meno che l'esercito Israleiano attaccasse Gaza per porre fine al lancio di missili da parte di Hamas, bisognava domandarsi: quest'attacco risolverà il problema, portando la pace in quella regione, oppure no? Io credo di no.

Io tollero la libertà altrui e il diritto di critica sin quando e sin tanto che non mi mettono i piedi in testa: a quel punto la alzo, e chi cade cade. L'unico appunto che faccio a me stesso è che tendo a fare di ogni questione un fatto personale - e questo è un grave limite, lavorativamente parlando.

Il bravo scommettitore riconosce un cavallo vincente anche quando perde - perchè perdere, a volte, può essere soltanto accidentale. C'è una regola: il cavallo vincente non lo si vede alla partenza, ma all'arrivo.

Se penso al passato, la maggior parte delle cose che ho fatto, per come sono oggi, non le rifarei. Ma, almeno da un certo punto della mia vita, credo di aver fatto in ogni momento esattamente quello che in quel momento mi sentivo di fare. Quindi non ho rimpianti.

Tornati dalla gita scolastica. Mi piace la compagnia dei ragazzi, anche se spesso non li capisco, anzi, credo che mi piaccia la loro compagnia proprio perchè sono così diversi da me. In genere, per una qualche forma di compensazione, ho sempre amato la compagnia delle persone che sono l'opposto di me. Quanto a me, credo di non essere mai veramente stato un ragazzo: io sono uno di quelli nati già adulti. L'altra cosa che ho imparato dalla gita (ma in parte la sapevo già) è che questi ragazzi mi mancheranno, quando avranno terminato il loro ciclo di studi - specie mi mancheranno le due ultime classi. Marzo quindici.

Chi è un combattente? Non necessariamente uno che vince. C'è qualcosa di eroico nel combattere sapendo d'essere votati alla sconfitta. E' per questo che il mio eroe-tipo non è mai stato Achille, ma Ettore.

La dicotomia fra quello che si è per se stessi e quello che si è per gli altri comincia dalla voce. Provate a registrare la vostra voce: la riconosceranno tutti, tranne voi stessi.

Il difetto della Storia dell'Arte è che non la fanno gli artisti. La Storia dell'Arte sarebbe tutt'altra se la scrivessero gli artisti. In genere ho una ripugnanza naturale per la Critica. Qualcuno ha detto: "chi fa, fa; chi non sa fare, dirige". Io dico: "chi non sa fare l'opera, critica quella altrui".

Ogni giorno la vita ci ricorda che il mondo può fare a meno di ognuno di noi, per quanto ciascuno di noi si reputi insostituibile. Come ieri, sette anni fa, è morto mio nonno. Oggi c'è il funerale di qualcuno che è il padre di qualcun'altro. Come dico sempre, i funerali servono più ai vivi che hai morti - servono per meditare sul senso della propria vita. Oggi, Aprile 3.

Certi avvenimenti ci ricordano quanto siamo fortunati, quante cose possiamo ancora fare, dire, pensare, quanto sono piccoli e insignificanti i nostri dolori quotidiani. Poi ritorna uno di questi piccoli, insignificanti dolori quotidiani e ci appare nuovamente infinitamente grande.... Anche questa è la vita - che non insegna. Mi spiego. Io non valuto questi piccoli insignificanti dolori per se stessi, poichè, in se stessi, sono questo (cioè insignificanti), ma li valuto complessivamente per le loro consegenze sulla tua psiche, o, meglio, sulla tua volontà futura. Il passato non va mai valutato per quello che è stato, ma per le conseguenze che ha sulla tua psiche attuale e su quella futura. Il passato è sempre un male, quando fiacca la tua volontà. L'uomo di carattere è quello la cui volontà non può mai essere fiaccata, nemmeno dal passato. L'uomo di carattere è quello che vive in ogni momento come se non avesse un passato. Qualcuno dirà: "l'uomo di carattere non è umano". A quelli che dicono questo, rispondo: "forse non lo è, ma di certo lo è stato".

Ho sentito di recente gli echi di un vecchio dibattito, che si ripete di generazione in generazione e specie in una certa età (cioè quando si è ancora ragazzi): necessità (destino) o cieco caso? Esiste o no un destino personale nei casi della vita? Io allora (cioè da ragazzo) mi sono fatto un'idea che conservo ancora oggi, ma che, più che una certezza, è un auspicio. Io credo vi sia per ciascuno di noi un destino personale stabilito ancor prima della nostra nascita: tutti abbiamo un posto ed un ruolo. Nell'economia dell'universo a ciascuno è stato assegnato un certo posto da occupare. La difficoltà è trovare qual è quel posto - e questo spetta a ciscuno di noi. I casi della vita possono metterci sulla giusta strada (ad esempio, se hai un talento, devi cercare di realizzarlo; se conosci una persona che ti appare interessante, per quanto sta in te, devi cercare di conoscerla in modo più approfondito, etc.), ma sta a noi riconoscere e imboccare quella strada. C' è una frase di Nietzsche (cito a memoria) che riassume quello che è anche il mio pensiero su questo punto: "qual è il nostro compito? Diventare noi stessi".

Quando dai un voto sembra che giudichi una persona, come quelli che applicano un cartellino sulla pelle della gente. Se io dò sei non significa che giudico una persona da sei, così come se dò cinque non significa che giudico una persona da cinque. Noi giudichiamo perchè c'è imposto di giudicare, perchè questo è quello che la società si aspetta da noi. Fosse per me, non darei nessun voto agli studenti. Per me la scuola dovrebbe servire per insegnare ed imparare, non per giudicare. Ma io sono io e la società è la società. Ad ogni modo, chiedo scusa - anche a quelli a cui non l'ho chiesto. Oggi, maggio quattordici.

Al di là delle altre distinzioni fra categorie umane (sesso, stato sociale, qualità estetiche o intellettuali, etc.), quella sostanziale, cioè quella che incide maggiormente sull'essere delle persone, secondo me, è fra pessimisti e ottimisti. Gli ottimisti, quelli del bicchiere mezzo pieno, pensano positivo, hanno sguardo amichevole (almeno all'apparenza), sono socievoli con tutti, fanno battute di spirito, piacciono alla gente e, in genere, hanno successo nella vita (si tratta di capire se hanno successo perchè sono così o sono così perchè hanno successo). I pessimisti sono l'opposto: parlano poco, non sono socievoli, è difficile che facciano battute di spirito e hanno lo sguardo diffidente. In genere non hanno successo nella vita, anche, se, qualche volta, lo hanno da morti. Tutti i grandi poeti, gli scrittori, i filosofi e gli artisti sono stati, per lo più, dei pessimisti - almeno quelli che si ricordano. Tutti i grandi banchieri, la gente d'affari e i magnati dell'industria sono degli ottimisti. La mia simpatia è sempre andata ai pessimisti: in parte perchè io personalmente sono un pessimista, in parte perchè le persone pessimiste sono le più sincere e quelle più capaci di comprensione umana nei confronti delle persone che soffrono. Un pessimista non farà mai del male ad un'altra persona, e, se lo farà perchè costretto, ne proverà dolore come se lo infliggesse a se stesso. Un ottimista, invece, dirà: cosa sarà mai? C'è pur sempre la morte, che è un male ben maggiore....

Internet, quest'immensa giungla virtuale, riserva sorprese, spesso non piacevoli. Ne cito una: tu ti reputi unico, importante, irripetibile e, ad un certo momento, ti accorgi che non sei neppure l'unico a portare il tuo nome (inteso: nome e cognome), ma c'è un'altro con quel tuo stesso nome, nato nello stesso anno, se, non addirittura, nello stesso mese. E, a volte, quelli che portano il tuo nome sono, addirittura, più d'uno, e fanno a gara per essere in prima pagina sui motori di ricerca (questo è lo stesso motivo per cui tutti cercano di venderti domini col tuo stesso nome). Internet, in effetti, dilata infinitamente le tue possibilità di comunicazione, di farti vedere, ascoltare, ma, al contempo, ti mostra ad ogni istante quanto ogni tua idea, ogni tuo pensiero, si perda fra milioni di miliardi (e sono ancora pochi!) di altri pensieri pensati da milioni di miliardi di persone (e sono ancora poche!) in quello stesso istante in cui tu pensi. Dunque, chi sei? Un granello di sabbia fra la polvere o, se preferisci, una goccia d'acqua nel mare. La verità è che siamo tutte quante gocce, con la presunzione d'essere il mare. Peccato per noi che ci sia il mare, a ricordarci costantemente quello che siamo: soltanto gocce.
Una sensazione analoga ti capita (o, almeno, mi capita) nelle librerie: è incredibile la mole di libri di nuova pubblicazione che escono continuamente, come se, anche in questo momento, ci fosse qualcuno chiuso in qualche meandro dell'universo a scrivere cose che domani o dopodomani qualcun'altro leggerà da qualche parte (non cessariamente su un libro), etc. Con un po' di presunzione, però, ti domandi: possibile che tutte queste persone abbiano veramente qualcosa da dire? Intendo: qualcosa degno d'essere ascoltato? Possibile che, improvvisamente, siamo diventati tutti scrittori, poeti, registi, etc.? O, forse, in tutto questo c'è, da parte di tutti, la presunzione d'essere quello che non si è? Voglio dire: il fatto che la visibilità sia oggi, in linea teorica, possibile a tutti (almeno su internet) non ha alimentato, da parte di tutti, una corsa alla visibilità anche senza avere nulla da dire? Oggi chiunque, almeno relativamente alle pubblicazioni online, è giudice di se stesso e, ovviamente, si giudica più che bene se decide di rendere pubblico il proprio lavoro. Tuttavia il pubblico, in questo marasma caotico di pubblicazioni, video, etc., come può districarsi? Evidentemente, tenderà ad indirizzarsi sugli autori già noti (ad esempio per una comparsata in tivù) o sugli autori che riusciranno ad escogitare una strategia di marketing più accattivante. A quel punto, il valore andrà al merito. Ma, dico: solo a quel punto. Dunque, se è vero (cosa innegabile) che strumenti come internet hanno infinitamente ampliato i margini delle nostre possibilità di comunicazione, hanno altresì posto per gli autori con un'impellenza fino ad ora sconosciuta la necessità di attuare strategie di marketing nuove ed efficaci. Oggi più che mai il talento non basta: bisogna, come si dice, sapersi vendere. Tutto ci dice questo.

Molto rumore per nulla. Quella che vista da dentro è una tragedia, vista da fuori è una commedia. Ma io sono fuori e, dunque, vedo la commedia. Peccato che a nessuno di noi riesca di vedersi dal di fuori e di vedere la commedia nella tragedia: lo dico innanzitutto a me stesso.

La speranza è come una malattia, che, poco a poco, si impossessa di te senza che tu possa esercitare su di essa alcun controllo razionale. Occorre molto auto-controllo e disciplina (oserei dire anni di controllo e auto-disciplina) per dominare la speranza, per annullarla - ma questa auto-disciplina non dura mai abbastanza. Le più grandi speranze preparano sempre i più grandi dolori. L'indifferenza ad ogni cosa, in un certo senso, è l'ultimo rifugio della razionalità.

Tutte le persone mi hanno sempre deluso - con poche eccezioni. Questo mi fa supporre che, forse, sia io troppo esigente nei rapporti con gli altri. Ma che cos'è "essere troppo esigenti"? Chiedere agli altri quello che chiederemmo a noi stessi?

Il tempo mette radici. L'abitudine mette radici. Facendo troppo a lungo un lavoro, tu diventi quel lavoro. Stando troppo in un posto, tu diventi quel posto. Ho bisogno di cambiare pelle, ho bisogno dell'incognita del domani, dove non sai, dove non sei. Tutto questo m'è oggi troppo stretto. Dunque? Libertà è non essere schiavo della propria vita, ma esserne il padrone. La vera libertà è poter ricominciare in ogni momento da capo. Ricomincerò - da capo.

A Giulia. Non so dov'è la tua anima, in questo momento, non so neppure se c'è ancora un'anima, da qualche parte, ma il tuo corpo è tornato a casa. Non t'ho mai conosciuto profondamente, ma, da quando non ci sei più, qualcosa è cambiato anche per me e, lassù, nel cielo, so che adesso c'è un'altra stella che mi guarda. Agosto 2009.

La stanchezza. La stanchezza del guerriero, quando le voci del campo di battaglia ti giungono ormai come echi lontani, quando la nebbia tutto avvolge. Ed hai soltanto voglia di riposare.

Detesto la falsità, la gente che parla alle spalle delle altre persone, detesto gli ipocriti, quelli che diffidano di tutti per partito preso e non dubitano mai di se stessi. M'hanno detto: tu vivi nel tuo mondo. Un tempo mi domandavo: che mondo sarebbe quel mondo in cui tutti diffidano di tutti? Oggi mi rispondo: questo - il vostro. M'hanno detto, quasi con compatimento: allora tu sei un'anima candida. E questo mi ricorda la scena finale di "Orizzonti di gloria", quando al protagonista è detto: "Allora lei è un idealista, e io la compiango per questo". A queste persone io dico: ciascuno ha il mondo che merita. Oggi, settembre ventitrè.

La nausea delle parole. Quando le parole servono soltanto a riempire i silenzi. Rimbaud a vent'anni smise di scrivere. Chissà cos'avrebbe scritto nei vent'anni che gli rimanevano da vivere prima che il cancro e la vita se lo portassero via. A quarant'anni Cesare Pavese disse: "Mai più parole. Un gesto". Chissà cos'avrebbe scritto ancora se in quella camera d'albergo, un giorno d'un agosto ormai lontanissimo nel tempo, non avesse deciso di finire i suoi giorni. Ad Arthur. A Cesare. A chi non c'è più e a quello che rimane: parole.

L'altro giorno un ragazzo di quinta m'ha detto "si sente bene, prof?". L'ha detto per tre volte e il giorno dopo m'ha chiesto: "Ieri era triste prof?". Non gli ho detto la verità, ma i ragazzi vedono anche quello che gli adulti non vedono - e per fortuna, in questo mondo, ci sono ancora i ragazzi.

In quell'attimo in cui tutto ti crolla addosso e viene meno la tua fiducia negli uomini e nella sorte, quando il peso stesso dell'esistenza ti diviene insopportabile, pensa, uomo, a quanti prima di te hanno ceduto. E pensa che tu devi vivere anche per loro, perchè sei la loro ultima possibilità.

Oggi, percorrendo in macchina lo stesso tratto di strada che percorro ormai da quattro anni, ho visto la rugiada sui campi - e non l'avevo mai vista, o, meglio, non l'avevo mai notata prima. E questo mi ha fatto pensare ai miei campi, che in quello stesso momento erano sotto un altro cielo, a centinaia di chilometri di distanza, e a mio nonno, che ho visto un giorno disteso su quei campi - ed è stata l'ultima volta che l'ho visto. Poi, nel primo pomeriggio, ho visto le case di questo paese, abbattute dal Sole e le strade, affossate nell'ombra, e ho sentito questo mondo di case e strade troppo stretto, come un nodo che ti stringe la gola. Tutto questo mi dà la nausea. Roberta un tempo mi diceva che non devo piangermi addosso e che non le piacciono le persone che si piangono addosso. Ma lei è passata, come quel tempo ormai lontano nel tempo. "Più pensi di stare male, più stai male", diceva una battuta d'un film. Oggi è un giorno, come un altro: viene dopo ieri e precede il domani. Abbiamo quello che meritiamo. Non bisogna mai lamentarsi. Mai. Settembre ventinove.

Certe volte ti sembra che quanto c'è di buono, di bello, di generoso al mondo, dopo che lo tocchi tu, diventa il contrario, come se tu avessi il potere nefasto di rovinare ogni cosa. E allora ti domandi se c'è qualcosa di sbagliato in te. Io mi sono sempre fatto scrupoli di coscienza, penso sempre d'aver sbagliato, chiedo scusa sino all'umiliazione. Ma tutto questo non è giusto nei riguardi di me stesso. E' facile per la gente giudicare, senza cercare di capire. Io credo che ciò che c'è di buono in me sia di gran lunga maggiore rispetto a ciò che c'è di sbagliato. E credo di essere migliore di molti, compresi molti di quelli che in questo stesso momento mi giudicano o m'hanno già giudicato.

Avevo dimenticato il lato aggressivo che c'è in me. Avevo persino dimenticato d'avere un lato aggressivo. Ma quando la bontà è schiacciata, vituperata, umiliata, persino derisa, allora il lato aggressivo che c'è in te ritorna, come quando ti picchiavi da bambino. E' come in quella canzone: se sei buono, ti tirano le pietre, se sei cattivo ti tirano le pietre, qualunque cosa fai, dovunque te ne andrai, ti tirano le pietre. Allora, tanto vale essere stronzi e non farsi mettere i piedi addosso - da nessuno.

La vita ci chiama sempre a nuove sfide. A volte, le nuove, sono le vecchie.

Sto combattendo contro la tentazione d'andarmene. Fuggire è sempre la soluzione più semplice. Fuggire da quello che non ci piace, dai nostri fallimenti, dal mondo che non è come lo vorremmo. Una volta sono fuggito dalla "civiltà" per un anno intero. Ho fatto il contadino e per un anno intero ho visto pochissimi esseri umani. Stavo per la gran parte del tempo con gli animali e vivevo quasi come un selvaggio. E' stato allora che ho iniziato a farmi crescere la barba. Ed è stato allora che ho imparato che gli animali sono molto migliori degli uomini. C'è voluto un anno intero, ma poi ho dimenticato. Ma è davvero così? Direi il falso se dicessi di non ricordare. In verità io credo che il tempo non faccia dimenticare, soltanto, ci fa accettare le cose - e questo è già molto.

Ho pulito la stalla delle vacche (cioè ho spalato il letame). E poi quella dei cavalli. Era molto tempo che non lo facevo perchè m'è rimasta una sola vacca allo stato semi-brado e perchè i cavalli erano al pascolo da quattro mesi. Lavorare fisicamente fa sempre bene - anche alla psiche. Le persone più felici che conosco sono lavoratori manuali e, per giunta, con poca istruzione, cioè quelli che qualcuno giudicherebbe con supponenza dei poveri disgraziati.

Il solito pezzo di cielo - come un ritaglio di giornale. La solita vista sul cortile - come una prigione senza mura. Le parole che si ripetono, l'eco della mia voce. Tutto vicino, per quanto così lontano. Fuochi fatui nel crepuscolo. E' in questi momenti che occorre chiedere a se stessi il massimo di coraggio, di pazienza, di dedizione. Perchè cammini sul precipizio: e sotto è il vuoto. Ricostruire la speranza, nella sorte e negli uomini, è sempre la cosa più difficile. In questi giorni parlo spesso con Giulia. Non le ho quasi mai parlato quando era viva, ma mi capita di parlarle adesso che è morta. E so che lei mi ascolta.

Dinnanzi alle delusioni ed ai fallimenti, tu guardi al passato, e vedi i fallimenti di oggi accumularsi a quelli di ieri. E' in questi momenti che ricordi tutto, anche quello che volevi dimenticare e che credevi d'aver dimenticato. E allora tutto ritorna, come allora. I battelli della Senna, il cielo azzurro d'un autunno, i tempi in cui c'era ancora il trio. Quando tutto non era ancora. Poi tutto passò - come nella canzone di Tenco, passato pure lui come una meteora in questo mondo che gli stava troppo stretto. E così la tua natura triste, malinconica e pessimista ha il sopravvento. Intanto canta la canzone di Léo che in italiano si intitola"Col tempo" e che fa "col tempo sai tutto se ne va". Resta il domani, come un'immensa x sul tuo cammino.

Oggi che nelle immense malinconie ricordo, ricordo quella volta che sotto la metro mi sono picchiato con F., o F. s'è picchiato con me - e se non è successo è perchè c'è stato J. a dividerci. E ricordo che dopo di allora il trio ha cessato d'esistere (o l'aveva fatto già tempo prima), ed è rimasto senza un pezzo. E ricordo quella lettera di F., anni dopo, dopo che non ci vedevamo da anni, che cominciava dicendo "chi non muore prima o poi si risente o si rivede". Scrivesti a me, e non a J. Mi parlavi della tua battaglia contro il male. Sono passati anni anche da allora - dopo quel nostro piccolo e fuggente riavvicinamento. So che hai vinto la tua battaglia, anche se non t'ho più sentito, nè visto. Probabilmente non leggerai mai queste parole, ma ho promesso a me stesso che un giorno, se otterrò dalla vita quello che ho sempre voluto e sarò felice come vorrei esserlo, ti verrò a cercare e, forse, il trio risorgerà dalle sue ceneri. Amico mio, resisti fino ad allora - e cerca di essere felice, per quello che puoi. Spero che quel giorno arriverà - per entrambi. All'amicizia.

Sono convinto che oggi, se Dostojevski rinascesse e inviasse un suo scritto (ad esempio una novella, tipo "Le notti bianche") ad un Editore, nemmeno verrebbe preso in considerazione. Lo stesso dicasi per tutta la grande letteratura russa (Tolstoj, Puskin, Cechov). Eppure D. è D., cioè uno dei massimi scrittori di tutti i tempi (per me in assoluto il più grande), mentre gli autori che pubblicano al giorno d'oggi non dureranno per più di cinque anni nella migliore delle ipotesi. La grande letteratura del passato era fatta da pessimisti e consisteva per lo più di drammi - dico "pessimisti" non nel senso ingenuo del termine, per il quale tutto è irrimediabilmente dolore, ma nel senso per cui la felicità è innanzitutto una conquista d'ogni giorno. Oggi la gente ha bisogno di ridere, d'evadere, vende il genere fantasy o il surreale. Nella vita ha successo la gente che ride e che fa ridere, che è capace di battute, etc. L'Ottocento e l'inizio Novecento, i secoli del Romanticismo e del Decadentismo, sono ormai tramontati. Io appartengo come scrittore e come scultore (ed anche come uomo) al grande pessimismo, che è ormai una cosa d'altri tempi. E, in effetti, guardandomi intorno, mi sento fuori moda. Si dirà: non c'è una scultura pessimista. Michelangelo, l'ultimo Michelangelo, era un pessimista; Rodin è sempre stato per lo più un pessimista. Uno scultore è un grande pessimista quando i corpi che rappresenta serbano in sè traccia di una lotta atavica, quando sembrano combattere contro un dolore che li intrappola e li schiaccia, ma non risce a vincerli. C'è qualcosa di inquietante in queste sculture, ma anche qualcosa di meraviglioso, per chi lo sa vedere. Io ci vedo la speranza - nonostante tutto. E tutto questo mi commuove.

Non credo più in Dio (questo già da un po'), non credo nella storia (che io stesso ho inventato a mio uso e consumo) del destino di felicità che c'è per ognuno di noi, se soltanto riusciamo a trovare il posto a noi assegnato nell'economia dell'universo, e non credo neppure più alla bontà degli uomini. Io oggi credo che ciascuno di noi debba trovare il coraggio di vivere in se stesso. Perchè vivere, poi? Per dimostrare agli altri (e soprattutto a noi stessi) che nulla ci può abbattere, neanche il più grande dolore. Solo per questo. Non per una felicità che non esiste o per una bontà che è soltanto una promessa non mantenuta. Bisogna considerare la vita una sfida. Oggi dico questo, ma so già che domani (non so quando), tornerò a credere nella solita storia del destino di felicità e nella bontà degli uomini. E, pure allora, spererò di non sbagliarmi, pur temendo, in cuor mio, d'essermi sbagliato. In effetti il titanismo può durare un mese o un anno, ma non una vita intera. Per quanto sia irragionevole, l'uomo non può vivere senza una speranza. Vivere senza speranze, direbbe Nietzsche, non è da uomini, è da superuomini.

Certe volte penso che tutta la mia vita sia stata un lungo, estenuante monologo con me stesso - un monologo che non è ancora finito. Queste stesse parole sono un monologo.

Io ho una capacità immensa di lavoro, sia fisico che intellettuale, che è tipica di tutti i miei antenati maschi. Posso lavorare moltissimo dormendo anche soltanto tre o quattro ore a notte. Però un piccolissimo insignificante evento che per gli altri sarebbe un nulla può agire sulla mia psiche corrodendola giorno per giorno come un tarlo, sino a distruggermi sia psicologicamente, sia fisicamente. Allora devo fare uno sforzo immane di autodisciplina e controllo per mantenere un equilibrio e non far saltare in aria il castello. Questo è quello che sto facendo in questi tempi. Lavorare è difficile, per molti motivi.

La pace - dopo la guerra. Forse la guerra serve soltanto per questo: per poi fare la pace. Oggi credo d'essere migliore di prima - e d'aver imparato qualcosa da tutto questo. Ottobre quindici.

A Carlo. La tua lotta per la vita è durata cinque mesi, ma è culminata con la morte. So che ce l'hai messa tutta, perchè era nel tuo carattere, ma la tua forza di volontà non è bastata. Altri avrebbero ceduto subito. Quest'anno un'infinità di persone che conoscevo se ne sono andate - specie negli ultimi cinque mesi. Ricordo quand'è morto mio nonno, ormai sette anni fa: quella sera in cui non è tornato, la sua seggiola, a capotavola, è rimasta vuota. Ed è rimasta vuota per giorni, dopo quel giorno, sin tanto che non l'ho occupata io, sedendomi di fonte a mio padre, all'altro capo della tavola: allora mi sono reso conto che, nella famiglia, ho preso il posto di mio nonno ed è finita per sempre un'epoca. Ancora adesso, spesso, mio nonno mi manca, ma so che, da lassù, mi sta vegliando, anche in questo momento. Oggi, pensando a Carlo che non c'è più, penso a mio nonno. Ovunque tu sia, nonno, questo pensiero è per te.

Quella che credevo una pace era invece una tregua armata. Certe volte penso che io vivo in un mondo colorato che mi sono colorato da me. Poi, ogni tanto, mi rendo conto che i colori delle cose o delle persone reali sono diversi. E questa si chiama delusione. La sofferenza più grande, almeno per me, è quando una persona ti delude. Allora ti senti derubato di tutta la fiducia che avevi nel genere umano e che avevi riposto in quella persona. Il fatto è che è difficile, dopo, ritrovare di nuovo la fiducia perduta. Ed è per questo che, fino all'ultimo, tu speri di non esserti sbagliato.

Quando non ci sarà più bisogno di combattere, d'armarsi, di difendersi? Quando potremmo guardare in faccia il nostro fratello senza temere una pugnalata alle spalle e la sincerità non avrà più nulla da nascondere? Quando? Il pessimismo dice: "mai, almeno in questa vita". E, siccome è pessimismo, aggiunge: "il fatto è che neppure ce n'è un'altra". Dunque?

C'è gente che non riesce a vivere fuori dal branco. C'è gente che esiste soltanto in quanto è parte di un gruppo. Si muovono come pecore, anche da adulte. Io credo ci voglia grande coraggio e grande forza per starsene fuori. L'uomo veramente forte è quello che non ha bisogno d'un branco per sentirsi forte ed è quello che se ne frega di ciò che dice la gente. Purtroppo, questo genere di uomini non sarà mai capito dall'uomo del branco. Il loro destino è la solitudine. E la loro forza è il loro dolore.

Ottobre. Gli errori fatti e quelli da fare. Il vento d'Ottobre che spazza le foglie d'un altro Ottobre. Volti su volti, strade su strade, un film discreto ma che non mi dice nulla. Fra poco sarà di nuovo Natale e fra poco se ne andrà un altro anno. Non riesco più a scrivere - a parte tenere un diario.

Oggi ho visto un pezzo teatrale di Tennessee Williams: "La gatta sul tetto che scotta" (da cui è tratto il film omonimo con Paul Newman e Liz Taylor). E' un buon pezzo, anche se preferisco una scrittura più asciutta e meno stereotipata tipo alla Ibsen. Quando vedo un buon pezzo penso sempre che posso fare altrettanto. Oggi, improvvisamente e soltanto per questo insignificante fatto, m'è tornata la voglia di scrivere. E so già che cosa.

L'attesa. Quando non puoi che attendere. L'attesa che ti corrode lentamente i nervi, come un cancro. Con tutto quello che avresti da dire, da fare.... Per persone come me, che concepiscono la vita come se ogni giorno fosse l'ultimo giorno, non c'è nulla di più insopportabile dell'attesa, quando non puoi nulla, soltanto attendere. A volte l'uomo vorrebbe spararsi un colpo in testa, pur di porre fine all'attesa. Ma voglio prendere tutto questo come una prova: voglio imparare ad attendere. Voglio dare tempo al tempo. Voglio credere e voglio sperare che l'attesa non sarà vana. E voglio credere e sperare che l'ascia del boia non taglierà la testa dell'innocente - perchè ho visto troppe teste d'innocente cadere nella mia vita. Ci sono persone per le quali il breve tempo è già troppo lungo e persone per le quali il lungo tempo è ancora poco: si incontreranno mai questi due generi di persone in questo tempo, che non è nè troppo, nè poco? La risposta è sempre la solita: soltanto se lo vorranno - entrambe.

Certe volte vorrei che le persone fossero trasparenti le une alle altre, in modo da poter vedere che cosa nascondono nel segreto del loro animo, al di là di quello che dicono con la bocca. Io sono sempre sincero con le persone che per me contano, ma, sempre più spesso, mi sembra di girare disarmato in un mondo in cui tutti indossano corazze. La sincerità ci rede bulnerabili - sempre.

Io ho sempre dato molta importanza alle persone e ai rapporti fra le persone, e, spesso, mi rendo conto d'avere sopravvalutato l'importanza d'entrambe le cose. Spesso le persone ti deludono e ti deludono poichè non sono all'altezza di quello che tu pensavi che fossero. Io tendo sempre a sopravvalutare gli altri e a sottovalutare me stesso, sfinendomi con i sensi di colpa. Ma credo che se c'è una persona a cui dobbiamo davvero qualcosa e a cui dobbiamo rispetto sopra ogni altra, quella persona siamo noi stessi. A volte, l'egoismo è la cosa giusta. Oggi brindo a me stesso - anche se brindo da solo. Al rispetto ritrovato.

Mi hanno sottoposto un quesito: perchè se amo i miei animali (allevo manze da carne), poi le macello? C'è un solo motivo: questa per me è una metafora della vita. Nella vita se c'è una cosa o una persona a cui veramente tieni, immancabilmente, da questa cosa o persona un giorno dovrai separarti. Io so che i miei animali un giorno che io deciderò non ci saranno più perchè dovranno morire, ma, per il tempo che rimangono con me, io cerco di trattarli come fossero degli esseri umani, tanto che arrivo a parlarci. Poi arriverà il giorno della separazione e soffrirò per quel tempo: ma questo è un allenamento alla vita. Come lo è, dopo, mangiare la carne di quegli stessi animali che tu stesso hai allevato. Devi educarti alla durezza, ogni giorno. La prima volta che ho portato una manza al mattatoio ho pianto - perchè lei, mentre la caricavano sul camion, s'è fidata di me. Ma, da allora, ho imparato.

Secondo me c'è un solo modo per valutare la bontà di una persona: quanto quella persona soffre nel procurare dolore ad altre persone. Le persone buone, per quello che possono, cercano sempre d'evitare col loro comportamento di procurare dolore alle altre persone e, se proprio non riescono a farlo, ne soffrono loro stesse. Queste persone, tuttavia, sono poche - sempre troppo poche. I più sono degli egoisti. Ferrè cantava: "Per gli stronzi a miliardi che fanno la solitudine. Per tutto questo, il silenzio". In effetti l'unica cosa che l'egoismo merita è il silenzio.

Ci sono personaggi tragici. Il destino del personaggio tragico è di andare alla deriva, poco alla volta, affondando con le sue stesse mani. Il destino del personaggio tragico è l'auto-distruzione: c'è chi è distrutto dalla rabbia, chi dall'alcool, chi dalla depressione.... Ma il personaggio tragico non sarà mai compreso: nessuno saprà vedere ciò che c'è di buono in lui, ciò che c'è d'altruistico in lui, ciò che c'è in lui di grande e superiore alla mediocrità umana. L'incomprensione è il suo destino. Tutti hanno ammirato i personaggi tragici, così come molti hanno amato i romanzi romantici (intendo: i portati del Romanticismo), ma nessuno vorrebbe essere un personaggio tragico, per quanto egli sia l'eroe di tutti i romanzi romantici.

Io non ho un pensiero politico. Ma quello che credo è che gli uomini potrebbero fare a meno dello Stato se soltanto applicassero questa semplice massima: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te. Questa è utopia perchè gli uomini sono quelli che sono. Questa è anarchia. Ferrè diceva "Anarchia con una A grande come Amore".

Oggi ho visto un pezzo di Tennessee Williams: "Lo zoo di vetro". E' un pezzo molto bello. Ed è un pezzo non a lieto fine. Rappresenta bene quella che è anche la mia concezione della vita. Il mondo non è quello che dovrebbe essere e i buoni perdono sempre. A volte, soltanto per un attimo, sembra che il merito venga ripagato: ma è soltanto l'illusione di un attimo. E' l'illusione del lieto fine, che non capita mai.

Mi rendo oggi chiaramente conto che il maggior errore che si fa nei rapporti interpersonali (o, almeno, il maggiore errore che faccio io) è di proiettare negli altri le nostre aspettative e speranze. Così gli altri sono per noi quello che vorremmo che fossero. Poi, un giorno, ti rendi conto che per molto tempo non hai parlato che con te stesso, per quanto tu ti illudevi di parlare con qualcun altro. Quello che è accaduto è che hai dato corpo ai tuoi fantasmi, hai dato loro una voce, un volto, e per qualche tempo ti sei illuso che fossero reali. Credo che la prima cosa, quando si ha a che fare con le persone, è conoscerle per quello che sono di modo da poterle giudicare in modo corretto, senza idealizzazioni. L'altra cosa è di pensare sempre che poche sono le persone veramente sincere: le più indossano una qualche maschera. Io apprezzo le persone che sanno dirti le cose in faccia e, all'occorrenza, anche a muso duro. Ammiro chi è capace d'odiare a viso aperto, perchè queste sono anche le persone che sono capaci di sentimenti veramente altruistici. Le persone da mezze misure sono sempre mezze persone. Non credevo di riuscire a guardare le cose con serenità, ma oggi ci riesco. E mi riesce persino di non dubitare del destino. Tutto quello che accade ha un senso, anche quando, di primo acchito, ci lascia feriti e delusi, e noi dobbiamo sempre imparare qualche cosa. Oggi ho imparato. Novembre diciotto.

Non mi nascondo che il mondo non è quello che mi piacerebbe che fosse e non mi nascondo che le persone non sono, per lo più, quello che vorrei che fossero. Ma ogni volta mi fabbrico nuovamente un mondo come piacerebbe a me e mi sforzo di vivere come se quel mondo che mi sono fabbricato da me esistesse davvero. So che è assurdo ed infantile, ma credo che se noi ci sforziamo di pensare che il mondo è diverso da com'è e che le persone sono diverse da come sono, un giorno il mondo e le persone cambieranno e ci renderemo conto, con nostro grande stupore, che non era stata soltanto una nostra illusione. L'importante è perseverare, nonostante tutto. Questo si chiama idealismo. E, nel bene e nel male, è nella mia natura d'essere un idealista. Lo sono come lo sono stati altri prima di me e come lo saranno altri dopo di me, ma tutti gli idealisti d'ogni tempo e luogo formano come una catena fra di loro, e sono tutti fratelli. Un giorno l'idealismo trionferà, se soltanto sapremo non interrompere la catena. All'idealismo e agli idealisti, ovunque essi siano!

Oggi ho chiamato Aurora dopo un anno e mezzo che non la risentivo. Dopo venti minuti che parlavamo m'ha detto: "Cristian, inizia a riflettere sul pazientare". Ed ha chiuso la conversazione. Aurora, tu sei la persona più profonda che io abbia mai conosciuto in tutta la mia vita e sei quella che è riuscita a dominare la propria profondità senza che questa la schiacciasse. Oggi lo vedo chiaramente. E vedo chiaramente che io ho bisogno di parlare con te - soprattutto adesso. Se in passato ho sbagliato è stato soltanto per una questione di orgoglio - almeno questo credo d'averlo imparato in questo tempo. E se oggi ti torno a cercare non è soltanto perchè ho bisogno di te. Oggi novembre ventuno.

Io credo nel destino - anche se credere nel destino, per me, non vuol dire fatalismo. Dunque cerco sempre di leggere i segni. A volte non riesci a comprendere il significato delle cose perchè ne vedi la sola negatività, ma poi, d'un tratto, quando la tua mente si fa lucida, capisci chiaramente il senso di tutto, come fosse un'illuminazione. A volte sbagliare, imboccare la strada sbagliata, fa parte di quello che doveva capitare. A volte anche tornare sui propri passi fa parte di quello che doveva capitare. A volte quello che capita serve soltanto a farci tornare indietro ed a cercare di ricominciare da capo. A volte le strade sbagliate servono soltanto a farci capire quella che è la strada giusta.

Quel modo di fare gentile, il tono della voce calmo, il sorriso rassicurante, tutto quanto un tempo apprezzavo oggi mi appare di un'ipocrisia intollerabile. Un tempo pensavo fosse un modo per mettere a loro agio le persone, ossia pensavo fosse una forma di generosità verso gli altri esseri umani, oggi mi sembra soltanto il comportamento di una persona che è ossessionata dal risultare gradita alle altre persone, cioè non lo vedo più come un atto di generosità, ma come una forma di egoismo: anche se a te non importa nulla di quello che dicono, anche se non rideresti, nè neppure li staresti a sentire, tu fai di tutto pur di compiacere. Perchè? Perchè questo bisogno di piacere a tutti i costi? Forse non è neppure egoismo: forse è soltanto insicurezza o, quello che dicono, bisogno d'essere amati. C'è qualcosa di malato in questo ricercare l'amore degli altri a tutti i costi. Credo questo accada quando una persona non ama abbastanza se stessa e così, ingenuamente, pensa che l'amore degli altri possa colmare questo vuoto che lei sente dentro di sè. E' per questo che queste persone si gettano a capofitto ogni volta in un nuovo amore e, alla fine, si ritrovano più disperate e sole di prima: perchè pensano di trovare fuori di sè quello che possono trovare soltanto in se stesse. Ed è per questo che la loro crudeltà va loro perdonata - perchè è frutto della loro disperazione. Quanto a me, nel bene e nel male, non m'è mai importato nulla di piacere alla gente: io faccio quello che mi sento di fare e sono quello che sono. A volte vorrei essere capito, ma, tutto sommato, se il prezzo per guadagnarsi la comprensione della gente è non essere se stessi, preferisco non pagare quel prezzo.

La felicità è una di quelle cose di cui non ti dai ragione. Esiste un tipo di felicità che consiste nella semplice serenità: quando soltanto riesci a guardare le cose con la giusta indifferenza, senza che più ti tocchino, nè più ti feriscano; quando l'uomo impara ad accettare. E' la felicità di chi impara a dire "sì", come diceva Nietzche, quando si augurava: un giorno vorrei imparare a vedere in ciò che v'è di necessario nelle cose quello che v'è di bello in loro e, prima o poi, vorrei soltanto essere uno di quelli che dicono sì. C'è una canzone che dice: per ogni goccia che cadrà un nuovo fiore nascerà. Oggi sono felice, ma non della felicità del guerriero che vince una battaglia, ma della felicità del saggio stoico che contempla le cose dopo che ha fatto la pace col mondo e con se stesso.

Kierkegaard scriveva nel suo diario (1848) in modo profetico: "si è stabilito di nuovo il principio "folla"(e questo concetto avrà ora, dopo il sopravvento della cultura e con l'aiuto della stampa, un potere ben più nefasto che nell'antichità). La "folla" è l'istanza, la "folla" è Dio, la "folla" è la verità, la "folla" è il potere e l'onore. Come si gioca al denaro, così la "folla" è tutto; e si tratta solamente e unicamente d'impossessarsi di essa e di averla dalla propria parte. Davanti a questa forza tutto si piega". Pasolini diceva negli anni sessanta (cito a memoria): "L'omologazione è il supremo pericolo, la suprema perdita della libertà. L'omologazione è il risultato inevitabile della società dei consumi". Oggi le profezie si sono avverate. Ma dove sono i nuovi profeti? Ci sono, da qualche parte, nuovi profeti?

Oggi è venuta a colloquio una famiglia (dico parte di una famiglia), vale a dire madre e figlia (entrambe a colloquio per un'altra figlia). E' stato molto piacevole parlare e vedere come ci siano persone che fanno della cultura un piacere e non un dovere. E' confortante pensare che c'è ancora qualcuno che riempie di libri la casa (anche se poi non legge tutto quello che compra) e per il quale l'odore della carta stampata è meglio dei colori di un video. Questo significa che c'è ancora speranza - contro l'omologazione. E significa che, a cercare pazientemente l'ago nel pagliaio, ancora lo si trova. Dicembre uno.

Un tempo si diceva "il modo di vita borghese". Oggi il modo di vita borghese è il modo di vita normale. Oggi siamo tutti borghesi. Le abitudini borghesi, il mondo borghese, gli ideali borghesi. Eppure c'è un altro mondo da qualche parte? C'è ancora un modo d'essere non borghese, non medio, non normale? C'è un mondo non borghese, non medio, non normale? Pasolini, ai suoi tempi, ha cercato quel mondo nelle borgate romane e ha tirato fuori dalle strade un sacco di ragazzi che, altrimenti, sarebbero diventati delinquenti, teppisti o sarebbero morti prima del tempo in quelle stessa strade in cui erano nati. Molti devono molto a Pasolini, che era una persona buona. Moravia, nell'orazione funebre in suo onore, disse: "Con Pasolini abbiamo innanzitutto perduto una persona buona. Sì, ci sono molti buoni, ma è difficile che una persona buona come Pasolini rinasca tanto presto". Tutte le persone profonde, ad un certo grado della loro vita, cercano un'alternativa al modo d'essere normale delle persone, al mondo normale, alle abitudini normali. Ad un certo grado della loro vita questo mondo sta loro stretto e la gente che popola questo mondo risulta a loro estranea ed incomprensibile. Noi cerchiamo un altro mondo. Noi, in effetti, siamo di un altro mondo e viviamo in questo mondo come estranei, come gente che guarda attraverso una vetrina. Abbiamo passato una parte della nostra vita ad immaginarci che il mondo fosse diverso da quello che è e che la gente fosse diversa da quello che è, ed abbiamo pensato che questo nostro solo pensiero potesse, per il fatto stesso d'essere pensato e creduto, cambiare il mondo, ma, da un certo momento, noi non vogliamo più cambiare il mondo, ma vogliamo cercare le alternative che ci sono a questo mondo e che qualcuno sta già percorrendo. Il barbone, quando lo è per scelta, a suo modo, ha scelto un altro mondo, un altro genere di vita. Ci sono modelli alternativi di società, comunità diverse dalla norma. Ci sono altri mondi, altre società. Oggi vedo un senso nuovo nelle cose. Vedo che il problema esistenziale è innanzitutto un problema politico. Sta finendo un anno e ne sta per cominciare un altro. Sarà il 2010. Sarà questo l'anno? L'anno in cui tutto si fa chiaro, lucido, l'anno in cui tutto acquista un senso? L'anno che il destino ha preparato già da sempre per noi?

L'ipocrisia regna sovrana e il prezzo della sincerità, del dire le cose in faccia è l'antipatia. I simpaticoni sono quasi sempre degli ipocriti e gli onesti passano per degli stronzi: è la legge di questo mondo. E' l'apparire che ha preso il posto dell'essere. E' la legge dei conigli, che non hanno il coraggio delle proprie opinioni, di quello che sono. Ma questo non sarà mai un buon motivo per diventare un coniglio - almeno per me. Oggi ho sentito gridare all'orco, ma poi, parlando con l'orco, mi sono accorto che l'orco era tale soltanto per quelli che gridavano e che supponevano negli altri la stessa ipocrisia che sapevano essere in se stessi. Oggi, dicembre tre.

Mi rendo ogni giorno di più conto che esistono due tipologie di persone: le persone che nella vita sono passate attraverso molti dolori che li hanno in certo modo temprati e quelle che sono passate attraverso esperienze normali, hanno fatto una vita normale, non hanno mai sperimentato grandi dolori, etc. Ciascuno reagisce a proprio modo dinnanzi al dolore e ciascuno elabora una propria strategia di sopravvivenza, ma tutti quelli che hanno sperimentato dolore e ne sono sopravvissuti, la prima cosa che cercano di fare, agendo, è di risparmiarlo agli altri. Questo è quello che si chiama altruismo. Questa è quella che si chiama empatia col dolore altrui, che diventa, almeno in parte, anche il tuo dolore. L'uomo normale non è mai capace di gradi slanci d'altruismo, nè, d'altra parte, di grandi eccessi d'ira. L'uomo normale ride, scherza, fa battute, l'uomo normale piace alla gente. Io appartengo alla prima categoria di uomini. Noi, anche se ci sforziamo di essere simpatici, di fare battute, etc., nel profondo abbiamo una tristezza che non colmeremo mai e di cui ci dimentichiamo, a volte, ma che ci accompagna sempre, come fosse la nostra ombra - sempre fino alla tomba. Questo è quello che ci rende grandi - per chi sa vedere la nostra grandezza -, ma è anche quello che ci rende terribilmente infelici. Questo è quello che non si vede perchè non lo diamo a vedere. Questo è quello che soltanto poche persone dotate di uno sguardo che scruta nel profondo riescono a vedere.

Credo gran parte della mia evoluzione psicologica sia rappresentata dall'evoluzione nei miei gusti musicali. Quando ero ragazzo ascoltavo la musica punk. Il punk, almeno quello delle origini (Stooges, Sex Pistols, Clash, etc.), quando non era ancora una moda, nè per chi lo faceva, nè per chi lo ascoltava, era una filosofia, un approccio alla vita. Poi è arrivata la moda dell'essere punk e il punk è finito. Il punk era il figlio della rabbia, quella rabbia che nasce nei quartieri poveri, quella rabbia che nasce contro il destino, la malasorte, i quintali di merda che hai ingoiato nella tua vita, la rabbia di chi ha cercato d'entrare nel mondo della gente "normale", ma ne è stato rifiutato, come quando ti sbattono la porta in faccia, così tu, alla fine, inizi ad odiare quel mondo di cui volevi essere parte e quella gente assieme alla quale volevi mescolarti, e inizi a coltivare la tua rabbia contro quel mondo e contro quella gente così come altri coltivano le aiuole nel loro giardino. Ed ogni giorno la pianta della rabbia cresce. Volevi un tempo essere come loro, ora vuoi essere il più possibile diverso da loro, vuoi essere il loro opposto, vuoi che loro ti odino, si scandalizzino alla sola tua presenza come tu odi e detesti loro. Questo spiega il modo di vestire, di parlare, di bestemmiare, il canto sgraziato, il voler provocare a tutti i costi. Questa è la rabbia. La maggioranza dei veri punk, però, alla fine non ha fatto che dirigere questa rabbia contro se stessa ed ha finito per autodistruggersi nell'alcool, nella droga, nell'abbruttimento di sè. Molti non sono sopravvissuti. Alcuni sono sopravvissuti, però, come mostri sacri divenuti schiavi del loro stesso personaggio. Pochi, in generale, riescono a vedere quanto c'era nel punk di disperato e quanto c'era di profondamente buono e generoso in quei ragazzi. Ad ogni modo il punk oggi è morto. Quando una cosa diventa di moda perde l'anima, cioè finisce d'essere se stessa e diviene qualcos'altro: prodotto commerciale, mangime per le bestie. Per noi, invece, il punk ha rappresentato una filosofia: non si è punk per come ci si veste o come si parla, lo si è per come si è dentro. Ciascuno di noi aveva i suoi motivi per avercela col mondo. E noi per anni siamo stati di quelli che coltivavano la loro rabbia come altri coltivavano le loro aiuole. La rabbia era tutto quello che avevamo. Ricordo, perchè non voglio mai parlare esplicitamente di me, che un giorno dovevamo vederci con J. e J. è venuto in ritardo: quand'è arrivato aveva il volto parzialmente tumefatto. Ha detto che s'era picchiato con l'amico di sua madre, ma che quello era conciato molto peggio di lui. Questo era allora J. J. è la persona più buona che io abbia mai conosciuto nella mia vita: lo è adesso come lo era allora. Soltanto, allora, non riusciva a dimostrare la sua bontà perchè nessuno era mai stato disposto ad ascoltarla. J. è come un fratello per me - lo è ancora adesso, dopo quasi una vita. Con gli anni siamo cambiati - tutti quanti - o, forse, sono stati gli anni e le esperienze a cambiarci. Io ho iniziato a scrivere ed a canalizzare la rabbia in altro modo. Ho iniziato a scolpire. Ho cercato di mettermi nei panni degli altri. Ho imparato, vincendo il mio infinito orgoglio, a chiedere ed a cercare il dialogo con le altre persone, anche mettendo in discussione me stesso. Sono diventato un filosofo e, in certa maniera, una persona idealista. Oggi so che è infinitamente più facile essere incazzati con mondo e con la gente piuttosto che cercare di capire e di farsi capire. Io non dico che la gente ti capisca, perchè noi siamo persone complicate, ma dico che tu devi sforzarti, per quanto sta in te, di avvicinarti alle altre persone. Musicalmente, ho iniziato ad ascoltare la musica classica, poi Tenco, i cantautori francesi, etc. Oggi ascolto soprattutto Ferrè, che non era soltanto un cantante, ma un poeta. Rimango un pessimista, come lo ero allora, ma ho accantonato la rabbia, che ritorna soltanto a volte, come un lampo, come quelle saette che tagliano il cielo notturno anche soltanto per un istante e ti ricordano quello che sei stato, quello che siamo stati. In fondo, quelle poche volte, servono a ricordami che, sotto la cenere degli anni, c'è ancora un fuoco che brucia - e quel fuoco non si spegnerà mai, perchè è il mio passato. Ho un convincimento, però, musicalmente parlando. Oggi non esiste più la musica: esiste il commercio, il Dio marketing: solo questo. Dall'altra parte: il solito branco, sempre il solito.

Amo il nero. Il nero non è soltanto il colore del pessimismo, ma è anche il colore dell'anarchia. Prima che quelle dei fascisti, erano nere le bandiere degli anarchici. L'immaginario collettivo possiede un'immagine stereotipata dell'anarchico: l'anarchico è l'attentatore solitario. L'anarchia è sempre stata associata, in quanche modo, alla violenza. Ma che cos'è l'anarchia? L'anarchia è il rifiuto di ogni autorità che non sia quella che uno esercita su se stesso. L'anarchico non vuole comandare, ma non vuole neppure essere comandato. Cos'è anarchico? Anarchico è non genuflettersi, anarchico è rifiutare il saluto militare, anarchico è portare i capelli lunghi, anarchico è criticare anche se criticare vuol dire il licenziamento, anarchico è considerare il Presidente della Repubblica o il tuo capo o il Padreterno un tuo pari, anarchico è non stare zitti quando ti vorrebbero ammutolire, anarchico è pensare con la tua testa quando vorrebbero renderti un ranocchio parlante, anarchico è insegnare scendendo dalla cattedra, anarchico è considerare tutti gli uomini fratelli, anarchico è essere se stessi, sempre e comunque. Anarchico è non nascondere la mano dopo che hai gettato il sasso. Tutto questo è violenza? Forse sì. La suprema forma di violenza verso certe persone è il rifiuto della loro autorità. La suprema forma di violenza contro questa società è il rifiuto delle sue regole.

Oggi sono stato felice. Grazie. Dicembre dieci.

Non sono un'animale sociale: ogni esperienza me lo conferma. Le feste non mi rilassano, ma mi deprimono e, anzichè mescolarmi con la gente, mi isolo ancora di più. La gente parla in queste circostanze di cose inutili, di cose a cui a loro stessi non importa nulla. In questi casi anche le persone più profonde divengono persone comuni. E a me non resta che ascoltare - e stare a guardare questa gente comune, che parla, parla, parla, che si riempie la bocca e le orecchie di parole - pur di non tacere. Domanda: perchè qualche volta vai alle feste? Risposta: perchè qualche volta vorrei essere una persona comune. In fondo, credo che le persone comuni siano le più felici.

Fine anno. Inizio d'anno 2010. Un altro anno se ne va, portandosi dietro le parole dette e le parole taciute, i sogni sperati e quelli delusi, gli incontri fatti e quelli mancati. Come ad ogni fine e ad ogni inizio si fa il bilancio di quello che è stato e di quello che vorremmo che fosse. L'anno passato è stato un anno duro per me, specie negli ultimi sei mesi. E' stato un anno in cui è stata messa a dura prova la mia fiducia nelle persone e anche nella sorte. Ma, come spesso capita, quando tocchi il fondo, vedi una luce, lassù in alto, e così ti aggrappi a quella luce per risalire. Io credo che ogni inverno prima o poi è destinato a passare. Io credo che dopo l'inverno verrà la primavera e, dopo la primavera, l'estate: la questione non è se l'inverno passerà, è se noi riusciremo sopravvivere al nostro inverno, per quanto duro e lungo possa essere. La questione è se avremo la forza di volontà, la disciplina, la pazienza, la dedizione sufficienti per attendere la primavera che pure verrà. Quando inizia un nuovo anno io penso sempre a chi non vedrà quell'anno che sta per iniziare, a quelli il cui calendario s'è fermato all'anno passato - e sono state in molte, fra le persone che conoscevo. Penso a chi non comincerà l'anno nuovo perchè così ha voluto per lui la sorte e penso a chi non lo farà per sua scelta. La vita è una ruota che gira e che dà quello che prende, come ritoglie quello che ha dato. La vita è questo. Ci sono persone che si accontentano delle mezze misure, d'essere felici soltanto per metà - e ci sono persone che non si accontentano del piatto mezzo pieno. Ci sono persone che puntano tutto quello che hanno su un numero che forse non uscirà mai - e persone che non puntano niente su di niente. Ci sono persone che credono ancora nella propria buona stella, ci sono persone che non ci credono più e ci sono persone che non ci hanno mai creduto. Io credo nella mia buona stella, nonostante tutto. Per quest'anno che viene voglio crederci ancora. E' questo ottimismo? Oggi, inizio d'anno duemiladieci.

Inizio d'anno con le ferite vecchie e le speranze nuove. Le ferite, come tutte le ferite, rimargineranno, prima o poi, anche se lasceranno la cicatrice. Quanto alle speranze nuove, invece, la speranza è che non divengano anch'esse, nel giro di un anno, ferite vecchie. Il pessimismo dice che la speranza è sempre vana e che serve soltanto a renderci più vivibile la vita. Oggi il pessimismo ha ragione.

Come oggi, trent'anni fa, moriva Piero Ciampi. Non aveva ancora cinquant'anni. Morì in povertà, come in povertà era vissuto. Morì rimanendo uno sconosciuto per il grande pubblico. Avrebbe potuto diventare famoso, almeno per un periodo della sua vita, ma gliel'hanno impedito il suo carattere poco accomodante e l'alcolismo, o, più probabilmente, gliel'ha impedito il suo destino, come ciascuno ha il suo. Ciò che io amo in un artista (e ciò che fa di un artista un vero artista) è quando la sua vita si salda alla sua arte, quando l'arte è una sorta di autobiografia, non un prodotto per il mercato, merce pensata a tavolino. Piero ha vissuto la sua arte, prima di crearla - e questo non è da tutti - e oggi non è da nessuno. C'è una sua canzone, che è anche il suo testamento spirituale. Questo è il testo: Ha tutte le carte in regola per essere un artista/ ha un carattere melanconico/ beve come un irlandese/ se incontra un disperato, non chiede spiegazioni: divide la sua cena con pittori ciechi, musicisti sordi, giocatori sfortunati, scrittori monchi/ ha tutte le carte in regola per essere un artista/ non gli fa paura niente, tanto meno un prepotente/ preferisce stare solo, anche se gli costa caro/ non fa alcuna differenza tra un anno ed una notte, tra un bacio ed un addio/ questo è un miserere/ senza lacrime /questo è il miserere di chi non ha più illusioni/ ha tutte le carte in regola per essere un artista/ detesta lavorare intorno a un parassita/ vive male la sua vita, ma lo fa con tanto amore/ ha amato tanto due donne: erano belle, bionde, alte, snelle, ma per lui non esistono più/ è perchè sono un artista, che l'hanno preso per un egoista/ la vita è una cosa che prende, porta e spedisce. S'intitola: Ha tutte le carte in regola (per essere un artista). Ciao Piero, ovunque tu sia! Oggi, diciannove gennaio 2010.

Più conosco il mondo, questo mondo che non capisco e che non mi capisce, più sono sospinto da te, che sei l'unica che mi abbia mai veramente capito. Il più, nella vita, è capirsi - quando ci si capisce, ci s'è già trovati.

Quando una persona in cui avevi riposto la tua fiducia ti delude, non crolla solo la fiducia che avevi riposto in quella persona, ma crolla, con essa, anche la tua fiducia nell'intero genere umano. Ma quando una persona non ti delude, quella persona ti restitusce non soltanto la fiducia in una persona, ma la fiducia nell'intero genere umano: è per questo che dobbiamo a queste persone molto di più di quello che loro stesse possono supporre. C'è chi disse: chi salva una vita, salva il mondo intero.

C'è un sommo grado della sincerità che è quella che uno deve a se stesso. In effetti c'è stato un tempo in cui tu eri arrabbiato col mondo. E quando tu sei arrabbiato, vuoi esserlo ancora di più, così ogni inezia ti fa montare la rabbia (da uno che ti urta per la strada a uno che ti supera in macchina, etc.) e allora tu cerchi di continuo la lotta, perchè in questo sentimento ti trovi bene, come fosse la tua seconda pelle. Tu hai ragione ad essere arrabbiato, e non è per colpa tua che lo sei, ma ora sei tu a volerlo rimanere, a cullarti in questo sentimento: questa è la verità. Lo stesso accade con la malinconia. La malinconia è un sentimento romantico. La malinconia è tipica degli artisti, come la depressione. E chi si sente un artista, dentro di sè, ama essere malinconico. La vita ti rende malinconico, ma tu, a tua volta, vuoi continuare ad esserlo - perchè questo è romantico. Ed anche questa è la verità. C'è un sommo grado della verità in cui bisogna dire "pane" al pane e "vino " al vino e dire "io" al posto di "tu".

Ad essere troppo buoni si finisce sempre per essere delle vittime. Io credo che quelle che oggi sono le persone più stronze una volta sono state le persone più buone di questo mondo: è che la bontà non paga e, alla lunga, è soltanto questione di sopravvivenza. Requiem alla bontà.

Ebbene? Se c'è una cosa che mi fa incazzare è l'ingiustizia. Ho sempre combattuto una mia guerra tacita (e a volte palese) contro l'ingiustizia. Per me ingiustizia è quando non c'è onore al merito, quando gli ipocriti, gli egoisti, quelli che hanno sempre avuto la vita facile, sono benvisti, benvoluti, amati, pieni di successo, e quelli che meriterebbero, i buoni, gli onesti, gli altruisti, quelli che ti dicono le cose in faccia e hanno ingoiato nella vita la loro buona dose di merda, quelli non hanno nulla e devono accontentarsi del loro nulla. Questa ingiustizia che non sopporto la trovo molto più sopportabile quando colpisce me, ma la trovo addirittura intollerabile quando colpisce altri. Vedere i buoni soffrire per la loro stessa bontà e gli stronzi gioire della loro stronzaggine è una cosa che mi manda in bestia. E sia. E siate. Non sarà questo a renderci nè degli ipocriti nè degli egoisti al pari di voi.

E' un periodo che vedo, ovunque mi volti, le disgrazie altrui. Io credo che, nei limiti del possibile, noi dobbiamo sempre cercare di fare qualcosa per il bene degli altri perchè le disgrazie di quelli che ci circondano sono anche le nostre: chi dice il contrario non soltanto è un egoista, ma è uno stupido.

Quello che devo fare è resistere ancora per qualche mese. So che in un ambiente ostile i mesi sono come anni e non finiscono mai, ma è in queste occasioni che uno deve dimostrare a se stesso tutta la sua forza di volontà. Io ho sempre creduto che la forza sta nel non avere bisogno di un gruppo per sentirsi forti: la forza del branco è la forza del coniglio. Del resto, se da ogni cosa che capita c'è da imparare perchè non capita a caso, il positivo in tutto ciò è che le persone si sono mostrate per quello che sono, nel bene e nel male, dunque ora giochiamo tutti a carte scoperte. L'altro lato positivo è che adesso ho dei buoni motivi (quasi un'impellenza) per fare quello che sino ad ora, pur avendolo in animo, non ho mai trovato il coraggio di fare.

Ho sentito dire di recente che bisogna cercare di essere felici di quello che si ha, poichè anche nelle piccole cose c'è felicità. Questo è un parere ragionevole e giusto e, probabilmente, è il modo migliore per procurare a se stessi la tranquillità e la serenità d'animo, in cui risiede, almeno in parte, la felicità. Io, però, credo che non bisogna nasconderci nelle situazioni attuali che viviamo quello che c'è di negativo e spiacevole: se in un certo posto, con certa gente, etc., tu stai male, non devi cercare d'essere accomodante, di farti piacere tutto questo, etc., ma devi prendere atto che quello non è il tuo posto, che quella non è la gente che fa per te, etc. Se, in tutta buona fede, stai male facendo un certo lavoro, vedendo ogni giorno certa gente, piegandoti a costanti compromessi, etc., allora devi cercare il posto, il lavoro, la gente che ti possano far stare bene. Non devi mai pensare che quel posto e quella gente non esistano: esistono, da qualche parte, se soltanto tu non rinunci a cercarli. Chi si accontenta, se mai sarà felice, lo sarà per metà, perchè, accontentandosi, non cercherà mai la parte di felicità che gli manca. Chi, del resto, non si accontenta, forse passerà tutta la vita a cercare: ma questo sarà vano? Qualcuno disse: "chi cerca, trova". Quel qualcuno si chiamava Gesù Cristo. E questo che diceva, lo diceva anche agli atei.

Nel piccolo. Nel grande. Tu ti sforzi di essere buono - e in effetti lo sei, o credi almeno di esserlo. Tu ti sforzi di essere corretto. E tutto ti si rivolge contro. Tutto. E alla fine tu ti domandi: ma io sono davvero buono? O in questo gioco delle parti loro sono i buoni e io sono lo stronzo? Conta qualcosa la buona fede? In questo gioco delle parti in cui tutto s'inverte e si confonde uno rimane solo coi sui dubbi. L'unica cosa certa è che il mondo se ne frega - sempre, di te come di chiunque altro. E nessuno fa uno sforzo per capire gli altri. E nessuno fa il passo a dire: "ho sbagliato". E intanto si continua a recitare una parte - ciascuno la sua. Questo fino alla fine della recita. E tutto questo è triste, per molti versi.

Quello che non capisco. I silenzi. Gli sguardi senza parole. Io mi adeguo anche a ciò che non capisco, ma appartengo a quella categoria di persone che vorrebbe capire - come quelli che cantavano: voglio la verità, solo la verità, tutta quanta la verità. Una persona. Una persona, dall'oggi al domani e senza un apparente motivo, non ti parla più, nemmeno più ti saluta. E questa persona non ti era estranea (anche se, oggi tu ti domandi: quando due persone cessano d'essere due estranei? E ti rispondi: forse mai) Tu ti domandi: perchè? E, in tutta sincerità, non riesci a trovare in te stesso una colpa. Così comincia un gioco che tu non hai iniziato, ma a cui tu ti adegui, un gioco alla fuga, un gioco senza parole e senza un perchè che dura da mesi e che, probabilmente, non finirà mai. Tu vorresti smettere questo gioco, ma sei condannato a giocare, perchè non hai scampo, a giocare, fino alla fine della corsa. Una persona non è solo una persona, ma è quello che rappresenta. E così ciò che prima stimavi ed ammiravi perchè lo ritenevi simile a te, ora inizi ad odiarlo, ma non odi una persona, tu odi te stesso per quello stupido bisogno che ogni tanto provi d'essere sincero e di gettare la maschera, per quel bisogno d'avvicinarti alle altre persone come una persona, perchè tutto questo dove conduce? A questo gioco senza un perchè. A questa fuga senza un perchè. Ad odiare un nome e il volto che sta dietro quel nome. A domandarti: chi sei veramente? Chi sono veramente? Oggi, febbraio Diciotto.

Oggi mi sono reso conto che io sono il ragazzo e i ragazzi sono gli adulti. In effetti sono più realisti di me, mentre io credo d'essere rimasto l'idealista che ero alla loro età. Il tempo e le esperienze m'hanno soltanto deluso, ma non m'hanno cambiato. E' questo un male? Io credo d'essere un idealista perchè è nella mia natura, così come è in generale nella natura degli artisti e anche di qualche filosofo. In fondo, se tutti ci accontentassimo del mondo così com'è semplicemente perchè così lo troviamo alla nostra nascita, la Storia dell'umanità non sarebbe mai andata avanti. La Storia progredisce perchè c'è ancora qualcuno che ha il coraggio d'essere un idealista e di non accontentarsi. Oggi, febbraio ventitrè.

Il senso d'accerchiamento, quando tu non sai più di chi fidarti. Un tempo scrissi un racconto il cui senso si riassumeva in questa domanda: che mondo sarebbe quel mondo in cui nessuno si fidasse più di nessuno? E in quel racconto il mio protagonista si fidava, a suo rischio e pericolo, e finiva per perdere la vita. Ma si fidava per il semplice fatto che un mondo in cui nessuno si fidasse più di nessuno non sarebbe più un mondo in cui varrebbe la pena di vivere. Eppure, se uno non si fida per primo, perchè dovrebbero farlo gli altri? Così il mio protagonista rischia per primo e perde la sua scommessa. Fidarsi è sempre una scommessa e al novantanove per cento dei casi, tu la perderai. Ma se credi nella possibilità di un mondo migliore, tu devi farlo e devi sperare che tu non sia il solo a farlo. In questi giorni ho sentito due campane, due campane che, per partito preso, non si ascoltano mai fra di loro: quelli che stanno sulle cattedre e quelli che stanno sotto le cattedre. Io non so dove sta la verità, ma quello che credo è che oggi noi dubitiamo della verità poichè nessuno la dice mai: così, in un mondo in cui tutti dicono bugie, anche la verità finisce per essere ritenuta una bugia. C'è un mito che è anche il grande ideale di Rousseau: un mondo in cui tutti fossero trasperenti a tutti ed in cui non ci fosse più bisogno di parole per vedere reciprocamente i propri pensieri. Si dirà che è utopia. Ma non è utopia: basterebbe che tutti dicessero la verità - sempre - per quanto sgardevole essa possa essere. Oggi, febbraio ventisei.

Io, almeno da un certo momento della mia vita, ho sempre applicato questa massima: agisci in modo da non avere rimpianti, ossia: fai sempre quello che in quel momento ti senti di fare. Quando tu fai quello che senti, comunque vada, bene o male, è comunque andata come doveva, e, dunque, non devi avere rimpianti perchè sei stato te stesso. So bene che molte volte non è andata come avrei voluto e che, probabilmente, se mi fossi comportato altrimenti, sarebbe andata in altro modo. Ma l'uomo ha sempre due strade davati a sè: o compiacere gli altri, o essere se stesso. La seconda strada è sempre la strada più difficile, perchè spesso ti espone alla solitudine e all'incomprensione. Ma se c'è un destino e t'è capitato in sorte d'essere quello che sei (e che, a volte, non è neppure quello che avresti voluto essere), è perchè tu sia fedele a te stesso, sino in fondo, sino alle estreme conseguenze: perchè questo è il tuo destino. Oggi sono stato fedele a me stesso - e s'è compiuto un destino. Anche se, forse, avrei voluto che andasse diversamente. Oggi, due marzo 2010.

Oggi ho visto una roccia crollare. Le rocce crollano quando si accorgono di non essere fatte di roccia. Nessuno di noi è di roccia, per quanto possa illudere gli altri e anche se stesso, per un tempo più o meno lungo. Ma c'è un momento, nella vita di ognuno, in cui siamo posti dinnanzi ai nostri limiti. Allora abbiamo due possibilità: o lasciarci annientare da quello stesso pensiero, o rinascere come una persona nuova. Ci sono due verità che si imparano nella vita: la prima è che solo riconoscendo i propri limiti si potrà poi superarli, l'altra è che la più grande forza sta nel riconoscere le proprie debolezze. Quello che ti auguro è di usare quello che ti sta capitando per rinascere come una persona nuova. Sei forte abbastanza per farcela, anche se non lo sai. Oggi, marzo tre.

Con gli anni sento sempre di più un'affinità spirituale fra me e J.J. Rousseau. Il mondo spesso ti giudica uno stronzo anche se tu, in tutta buona fede, ritieni di essere e sei in verità una persona buona, forse molto più di molte altre persone. Il fatto è che sei semplicemente diverso dalla massa, che non fai quello che fanno tutti, che non pensi come tutti, che non ti comporti come tutti. Il fatto è che la tua psiche non è semplice come quella della massa - e anche la tua vita non è stata semplice come quella della media delle persone. Rousseau ha dovuto scrivere un'intera opera (Le Confessioni) per cercare di farsi capire dal mondo - anche se, il mondo, probabilmente, non lo capirà mai, neppure da morto e nonostante Le Confessioni. Queste sono le sue parole: "Mi inoltro in un'impresa senza precedenti, l'esecuzione della quale non troverà imitatori. Intendo mostrare ai miei simili un uomo in tutta la verità della sua natura; e quest'uomo sarò io. Io solo. Sento il mio cuore e conosco gli uomini. Non sono fatto come nessuno di quanti ho incontrati; oso credere di non essere fatto come nessuno di quanti esistono. Se pure non valgo di più, quanto meno sono diverso. Se la natura abbia fatto bene o male a spezzare lo stampo nel quale mi ha formato, si potrà giudicare soltanto dopo avermi letto. La tromba del giudizio finale suoni pure, quando vorrà: con questo libro fra le mani mi presenterò al Giudice supremo. Dirò fermamente: Qui è ciò che ho fatto, ciò che ho pensato, ciò che sono stato. Ho detto il bene e il male con identica franchezza. Nulla ho taciuto di cattivo e nulla ho aggiunto di buono. e se mi è occorso di usare, qua e là, qualche trascurabile ornamento, l'ho fatto esclusivamente per colmare i vuoti della mia debole memoria; ho potuto supporre vero quanto sapevo che avrebbe potuto esserlo, mai ciò che sapevo falso. Mi sono mostrato così come fui, spregevole e vile quando lo sono stato, buono, generoso, sublime quando lo sono stato: ho disvelato il mio intimo così come tu stesso l'hai visto. Essere esterno, raduna intorno a me la folla innumerevole dei miei simili; ascoltino le mie confessioni, piangano sulle mie indegnità, arrossiscano sulle mie miserie. Scopra ciscuno di essi a sua volta, con la stessa sincerità, il suo cuore ai piedi del tuo trono; e poi che uno solo osi dirti: "Io fui migliore di quell'uomo"." In tutto ciò, a Rousseau sfuggiva la verità ultima: che l'uomo di carattere è quello che può fare a meno della comprensione altrui. Paradossalmente, dopo aver teorizzato l'irrimediabile separazione fra apparire ed essere, Rousseau è stato ossessionato tutta la vita dal tentativo di far coincidere nuovamente quello che era stato irrimediabilmente diviso. Questo tentativo è (e sarà) sempre vano. Il primo passo verso la felicità è sempre questo: rinunciare ad essere capiti. Oggi l'ho capito.

I muri parlano, ma la verità tace. Un giorno ormai lontanissimo, quasi una vita fa, ti dissi che mi sarebbe piacuto sapere cosa c'è nel tuo cervello: ormai ci ho rinunciato. Ma è già tanto che oggi i muri abbiano rotto il silenzio. Oggi, quindici marzo.

Ci sono molti modi per uccidersi. Non ci si uccide soltanto infilando la testa in un cappio o buttandosi nel vuoto. Ci si uccide anche uccidendo quello che siamo stati, l'uomo che eravamo, ciò in cui credevamo. Ogni tanto ho la folle tentazione d'uccidere un uomo - e quest'uomo sono io: è quello che sono, quello in cui credo, le regole che appllico da sempre ostinatamente nella vita. Ma ritardo sempre quel momento - ogni volta. Eppure un giorno sarò una macchina da guerra.

Passerà anche questo, come passa il temporale, come acqua che scorre. Tutto questo passerà e diverrà soltanto ricordo.

Come ieri è morto mio nonno. Gli anni s'accumulano - e sono già otto. Ciao nonno, ovunque tu sia. Oggi, tre aprile 2010.

L'errore che faccio sempre è dare troppa importanza alle persone. Cos'è una persona? Un granello di sabbia nel deserto. E cos'è un granello di sabbia fra milioni di milioni di miliardi di altri granelli? Un puntino, nell'universo. Anche tu. Anche io.

Non ho mai dato molta importanza nella mia vita al denaro. Una cosa però la riconosco: il denaro non compra la felicità, ma rende liberi: questa è l'unica cosa a cui serve.

Io applico una regola: mai avere idoli. Ciascuno deve diventare l'idolo di se stesso. Ma non per questo non esistono persone che io ammiri. Quello che mi piace non sono persone, ma tipologie di persone. Mi piacciono quelli che hanno il coraggio di amare, nostante tutto e nonostante il dolore, quelli che credono, nonostante tutto e nonostante ogni umano raziocinio, quelli che non nascondono la mano dopo aver gettato il sasso, quelli che sono pronti a dare senza chiedere, quelli che credono ancora nella possibiltà d'un mondo diverso, quelli che sanno commuoversi per le disgrazie altrui, quelli che combattono una battaglia sapendola persa, quelli che non perdono la memoria, quelli che viaggiano senza maschera e senza reti di protezione, quelli che camminano come funamboli sull'abisso - ogni giorno, quelli che non vedi, quelli che non senti, ma che ci sono, quando hai bisogno di loro. Io ammiro queste persone perchè in qualche maniera hanno un'affinità spirituale con me ed hanno contribuito a rendermi quello che sono: Fjodor Dostojevski, Léo Ferrè, Iggy Pop, Joy Division, Piero Ciampi, Claudio Lolli, Luigi Tenco, Augusto Daolio, Francesco Guccini, Lars Von Trier, Krysztof Kieslowski, Marco Bellocchio, Martin Scorsese, Ingmar Bergman, Pierpaolo Pasolini, Cesare Pavese, Arthur Rimbaud, August Rodin, Michelangelo Buonarroti, don Zeno Salvini, don Ciotti e molti altri che non cito. Ma la persona cui credo d'assomigliare di più, anche nelle sue infinite contraddizioni, è J.J. Rousseau.

Oggi sono stato sincero e so che probabilmente ho rotto la pace. Ma per me la sincerità vale di più: voglio essere giudicato non per i miei comportamenti, ma per quello che sta dietro a quei comportamenti, cioè per quello che sono. C'è un peso in quello che siamo, che a volte ci schiaccia e ci allontana nostro malgrado dalle altre persone - ma dobbiamo imparare a sopportarlo, pagandone le conseguenze. Oggi aprile tredici.

Sono stanco, infinitamente stanco, stanco di tutta la stanchezza del mondo - quando vorresti soltanto riposare. Stanco di questa guerra infinita, che da tempo infinito combatto contro me stesso, forse contro i mulini a vento. In fondo, in tutta sincerità, avrei voluto una vita come tutti. Non m'è mai interessata la fama, la gloria, avere un pubblico, tante persone che ti ascoltano, essere un artista. Ma putroppo lo sono diventato, senza volerlo, e adesso desidero la fama, la gloria e un pubblico - come l'unica ragione di una vita, come una forma di rivincita sulla normalità che non ho avuto. Io vedo con tristezza che ci sono persone non sanno apprezzare la normalità che hanno, mentre c'è gente che desidererebbe soltanto la normalità che non ha. Io dico a te: impara ad apprezzare quello che hai e la sincerità che t'è consentito di mostrare. Ed impara ad apprezzare il valore delle parole che puoi dire. Oggi, aprile quattordici.

Ho atteso - invano. Non ho capito - come al solito. Alle 19.31 m'ha scritto: "Ti chiedo d'interrompere qualsiasi tipo di comunicazione con me. Questa non è per me la via più facile, te l'assicuro". Oggi, aprile sedici.

La rabbia è il miglior rimedio alla depressione - l'unico che io conosca. Quando sei incazzato, neppure più senti il dolore. Per un po' di tempo voglio coltivare la mia rabbia - sino a quando non sentirò più dolore. Oggi, aprile diciasette.

La rabbia è tipica dei ragazzi. Da ragazzo, quando sei depresso, non sei depresso, ma incazzato. Da adulto, quando sei depresso, sei depresso. La depressione è una cosa molto più difficile da affrontare da adulti, che da ragazzi. Oggi lo vedo.

Le cose migliorano. Ma il pessimismo ti educa ad essere sempre pronto al peggio. Vorrei una pace perpetua, ma il pessimismo mi dice che la pace è soltanto una tregua fra due guerre: quella che è finta e quella che sta per cominciare. Alla pace perpetua - a chi ha ancora il coraggio di crederci. Oggi io ci ho creduto. Oggi aprile ventidue.

Il mio rapporto con la speranza è ambivalente. L'uomo, per sua natura, non può vivere senza la speranza. Tuttavia, tutti i pessimisti temono le loro stesse speranze perchè sanno già che queste saranno vane. Eppure, in quanto uomini, essi, come tutti gli altri, sperano. L'effetto è che quando un pessimista spera, soffre. E, quanto più si avvicina il momento in cui le sue speranze saranno messe alla prova dei fatti, tanto più soffre, perchè già sente la sofferenza che ne avrà dopo. Sicchè, l'avvicinarsi al momento in cui la speranza sarà passata al vaglio dei fatti è per il pessimista come avvicinarsi, passo dopo passo, al patibolo. Eppure s'affaccia l'assurda speranza: e se sperare questa volta non fosse vano?

Ogni tanto una tartaruga vorrebbe avere le ali e ogni tanto un falco verrebbe avere il suo guscio. E ogni tanto un uomo vorrebbe svegliarsi, un bel mattino, e accorgersi che tutta la sua vita passata è stata soltanto un sogno e che, senza saperlo, ne ha sempre posseduto un'altra. E ogni tanto un uomo vorrebbe addormentarsi una sera sperando di risvegliarsi, la mattina, in un altro mondo, con altre facce, altre voci, altri pensieri ed un altro se stesso. Questo capita, ogni tanto - anche a me. Maggio tre.

E' il peggio che viene: dalle persone, dalle relazioni, da te stesso.

Quando un uomo inizia a morire? Quando non ha più voglia di combattere. Per me la vita è stata quasi sempre una guerra. Ed oggi sono stanco di combattere. Oggi, maggio sei.

Inspiegabilmente, quando tutto ti vorrebbe abbattuto, quando la depressione ti annienta, sorge qualcosa che si chiama domani. E' quell'incognita che non sai, di cui ignori i volti, le voci, le parole.... E' il fascino di quello che non hai ancora visto, conosciuto, ma che sai che c'è, da qualche parte, e che aspetta proprio te. E' il tuo domani, di cui oggi ignori tutto. Oggi vedo la bellezza invidiata che ci può essere nell'autostrada che sta davanti a te, di cui conosci tutto, sino le più nascoste pieghe, la sicurezza che ti dà l'avere un porto sicuro, un riparo certo, un orecchio che ti ascolta, ma vedo anche la bellezza che c'è nell'immenso mare che si stende davanti a te ed oltre al quale non sai cosa t'attende. E' il richiamo del mare. Oggi, maggio sette.

Ho cercato di salvare la bontà a tutti i costi: l'ho fatto giovedì, l'ho fatto ieri e l'ho fatto questa mattina. L'ho fatto sino a farmi male. Ma non è servito a nulla. Oggi ho avuto come una folgorazione - sul senso della vita. Ho capito che devo cambiare, perchè è questione di sopravvivenza. Ogni cambiamento parte dal cervello: l'ho sempre saputo. La prima regola è di considerare d'ora in poi ogni persona un granello di sabbia in un oceano di granelli di sabbia. Cos'è una persona, in fondo? Un corpo: nient'altro. Un corpo più o meno interscambiabile con altri corpi. Basta malinconia, basta tristezza, basta sincerità, basta altruismo, basta bontà, basta parole. D'ora in poi sarò quello che non ero. E, alla fine, sarò soltanto una macchina da guerra. Oggi è deciso. Oggi, otto maggio 2010.

Certe volte - quando sono deluso dalle persone e dal mondo - vorrei avere qualcuno da ammirare, un grande vecchio che ti mostri la strada. Perchè è difficile, quando non sei una persona comune, trovare da solo la tua strada. Vorrei un grande vecchio da cui imparare, come lo erano Leo Ferrè e Augusto Daolio - ma non esistono più, entrambi. Oggi esistono soltanto piccole piccole persone che si credono grandi grandi artisti. Oggi è finito il tempo dei gradi maestri. Questo è il tempo dei piccoli uomini i cui sogni non vanno oltre il loro sguardo o il loro conto in banca. L'unico grande vecchio sopravvissuto è Francesco Guccini.

J., tu sei il mio migliore amico - sei il mio unico amico - oserei dire che siamo quasi fratelli, anche se non nati dalla stessa madre. In tutti questi anni io non avevo mai notato come tu fossi cambiato. Tu sei diventato saggio, infinitamente saggio. Oggi mi rendo conto di quanto questi anni ti abbiano cambiato - anche se non me l'hai mai detto. C'è stato un tempo in cui io forse ero la guida, anche ai tempi del trio. Ma adesso sento che io ho da imparare da te. Oggi ti vedo vecchio e saggio, anche se hai soltanto un anno più di me. E questo mi spaventa - perchè nella tua saggezza c'è una sorta di disillusione, di stanchezza - come quando la gioventù lascia il posto non all'età adulta, ma alla vecchiaia. Io ho il rimpianto di non aver mai saputo ascoltare - nemmeno te. Tu invece mi hai sempre ascoltato in questi anni, e mi hai sempre detto che avevo ragione - anche quando sapevi che avevo torto. D'ora in poi ascolterò - anche il dolore altrui. E mi prenderò più cura di tutti quelli che in questi anni si sono presi cura di me. Oggi, maggio sedici.

C'è chi va e chi rimane. Oggi tu vai - e io rimango. Domani io andrò e qualcun altro rimarrà. Buona fortuna a te che vai.

A volte sto male, ma poi mi riprendo. Sto male quando ripenso al passato.

E' successo. La rabbia è uscita, come un fiume che rompe gli argini. Doveva succedere. Io ho un basso livello di sopportazione del dolore: dapprima sto male dentro, poi il dolore diventa rabbia e fuoriesce. A un certo punto tu hai bisogno di vederlo il dolore, fuori di te, di tramutarlo in odio: e allora guarisci. Non è normale, ma è così. In fondo, se guardo la mia vita, io credo di essermi sempre comportato come un personaggio da film o da romanzo: io sono un personaggio da film. Certa gente va al cinema, guarda e finisce tutto lì. Ma io sono quello che scrivo. Io so di essere eccessivo, plateale, so che la mia psiche non è "nomale", so che la vita non è un film, ma non riesco ad essere come tutti gli altri e a comportarmi come tutti. Il non essere nella norma non ti rende felice, perchè la verità è che la felicità sta nella normalità, ma, per quanto tu ti sforzi di essere normale, di comportarti come tutti, di pensare ed agire come tutti, non lo sarai mai, perchè non è nella tua natura. Qual è la soluzione? Non lo so. La mia vita, guardata nel complesso, potrebbe essere un film, e lo è stata, in molti pezzi che ho scritto. Manca ancora una parte, quella che devo ancora vivere, e non so come andrà a finire. La vita è ricerca - di cosa? - la chiamano "felicità", ma cos'è? - la vita è fuga - dal passato, dai brutti ricordi, dal dolore - la vita è un'incognita data da questa fuga e da questa ricerca: riuscirà mai il nostro eroe a fuggire ed a trovare? In fondo, chi scrive e tramuta la propria vita in film e romazi è perchè, semplicemente, vorrebbe essere compreso. Ho sempre creduto la parte maggiore della felicità stesse proprio in questa comprensione da parte degli altri esseri umani, nel fatto che gli altri, al di là dei tuoi gesti e delle tue parole, potessero vederti per quello che sei veramente e vedessero così anche quello che c'è di buono e di generoso in te. Ma questo non succede - mai. Dunque? Non lo so - e non voglio pensarci. Tutto è fiume. Tutto scorre. Oggi il fiume di rabbia è uscito e, per un attimo, m'ha fatto bene. Oggi, giugno quattro.

Sole - splendi. Un giorno splenderai. Stelle - brillate. Un giorno tornerete a brillare. Fiume, che scorri - un giorno raggiungerai il mare. Domani. Domani. Come una promessa, come un miraggio. Dio: come una promessa, come un miraggio. Dio, esisti? Dio, come una preghiera, come una supllica, come una speranza. Dio, come l'ultimo grido del condannato a morte. Dio. Oggi ho pregato.

Oggi ho conosciuto per un caso Mauro Corona. Credo sia stato un incontro fra due personaggi, per quanto profondamente differenti fra di loro: uno che lo è già un personaggio e uno che lo diventerà. In vita mia non ho mai provato ammirazione per un'altra persona, ma, dinnazi a quest'uomo che mi parlava, quest'uomo che sfugge a tutti gli stereotipi della civiltà e dell'uomo comune, quest'uomo che rifiuta per principio la civiltà, ho provato una grande ammirazione ed ho capito che da lui avevo qualcosa da imparare. Forse, il fatto che l'abbia conosciuto, era un segno del destino, perchè in questo periodo più che in altri della mia vita, io ho bisogno d'un maestro - e oggi l'ho trovato. Gli ho detto: "Per te esiste il destino?" e lui m'ha risposto: "Il destino è quello che capita. Se noi staremo qui, a chicchierare fino a notte davanti a questa birra, è segno che doveva capitare, se non capiterà è segno che non doveva capitare. Ma lo sapremo soltanto dopo che sarà successo". Oggi, giugno sei.

Ipocrisie, persone ipocrite. Il mondo è degli ipocriti, della gente che non ha nemmeno il coraggio delle proprie opinioni o delle proprie parole. Il mondo è loro. Ed a noi non resta che guardare, guardare questo mondo di ipocriti, guardare una persona che pensavi essere diversa - guardarla, ipocrita come tutte. Oggi ho detto addio definitivamente a questo mondo e lo guarda già come ricordo. Vivo nel ricordo, perchè tutto questo ormai non è più reale - è solo ricordo. Domani sarà lontano nel tempo e nello spazio. Eppure ho visto la speranza, soltanto ieri sera. Ho visto ragazzi che avevano bisogno di un maestro, di qualcuno che indicasse loro la via. Ho visto ragazzi capaci di ascoltare, di credere e di sperare. Ho visto qualcuno che, un giorno, potrà cambiare il mondo. Perchè questo mondo ha bisogno di essere cambiato. E il nostro compito è quello di fare da guida per queste nuove generazioni. Noi, che siamo ormai in pochi, noi, che siamo ormai soli, come sopravvissuti di un'altra epoca e di un altro tempo. Noi, che abbiamo vissuto da estranei in questo mondo, sopravvivendo giorno dopo giorno, delusione dopo delusione, notte dopo notte. C'è una fiaccola fra lo ieri e l'oggi e ci sono dei traghettatori: a noi è capitato in sorte d'essere dei traghettatori. Ieri l'ho visto, ragazzi. Oggi, giugno sette.

Sensi di colpa. Qualcuno m'ha detto che io mi metto sul piedistallo, che penso che gli altri giudichino me, invece sono io che giudico gli altri. Qualcuno m'ha detto che a me piace fare la vittima, ma non la sono. E questo qualcuno per me non era una persona qualsiasi. Io sono il primo a giudicare me stesso ed a farmi infiniti sensi di colpa. Anche adesso io penso che tu forse hai ragione. Molte volte penso che dovrei coportarmi diversamente, essere diversamente, dico: ma se avessi fatto, se avessi detto, se fossi...... Ma, in tutta buona fede, io credo in me ci sia anche qualcosa di buono e questo qualcosa di buono può far perdonare tutto il resto - per chi lo sa vedere. Oggi, di una persona che stimavo ed ammiravo, mi resta soltanto l'odio. Oggi ci siamo odiati. Perchè è accaduto che nel corso di quest'anno ciascuno di noi abbia tirato fuori il peggio dall'altra? Perchè siamo giunti a questo sentimento che è così simile all'odio? Eppure, un tempo, eravamo persone diverse...... Oggi, giugno nove.

Le strade. Le piazze. Gli alberi, fra le case, fra le piazze. Ho girato le strade e le piazze che altre volte ho girato. Ma le ho girate come si vede un film: tu sei al di qua e lui è al di là, che scorre impassibile davanti ai tuoi occhi. Tutto c'è, ma è come non ci fosse: tutto ormai sta diventando ricordo. Le parole dette, quelle taciute, i gesti, le voci. Su tutto sta calando una patina di nebbia, a poco a poco. Voi siete di qui, io sono di là. Che ne sarà del domani? L'uomo che va non sa quello che troverà, ma sa quello che lascia. L'uomo che va, ricomincerà. Se penso alla mia vita, penso che molte volte ho dovuto ricominciare. Ma se penso a me stesso, penso che molte volte ho voluto ricominciare. Non riuscirei a vivere per sempre una sola vita. Io ho bisogno di ricominciare ogni volta una vita nuova, ho bisogno di nuove emozioni, di nuovi cieli, da abbracciare con lo sguardo. Questa, forse, è una malattia. Questa è la malattia.

"Stagioni, castelli" recitava una poesia di Rimbauld. Stagioni, che passano, come piante avvizzite. Una stagione sta passando. Ho tratto il succo da questa stagione, ma quello che doveva essere l'eterno è una stagione soltanto. Guardo mio padre e in questi tempi vedo la sua stagione, che è durata una vita. Vedo il lavoro, che è durato una vita, come una schiavitù, un imperativo, un compito che hai dato a te stesso e di cui divieni schiavo. Vedo l'imperativo del lavoro, che si abbatte su di noi da generazioni, senza una tregua, come una maledizione. Vedo mio nonno, il padre di mio padre, che dopo una vita di duro lavoro, a cinquantanove anni, è morto di cancro. E vedo le viti che aveva piantato, scassando la terra sino a due metri, divorate dai rovi, e i campi, divorati dal bosco. E vedo il padre del padre di mio padre, un uomo dalla forza mitica, che morì anch'egli a neanche sessant'anni dopo una vita di fatiche. E io mi domando: perchè? Quando lavori fisicamente - perchè per me il lavoro che non è fisico non lo senti, non è vero lavoro - quando lavori fisicamente, tu ti domandi: perchè questo sforzo? E rispondi: per guadagnare. Poi, dopo che hai guadagnato abbastanza, tu, anzichè fermarti, continui a lavorare e ti domandi: perchè? Perchè questo sforzo? Ma non ti rispondi, lo fai e basta, come un automatismo. Io conosco persone che lavorano come muli per il semplice fatto che non hanno mai saputo fare altro, e non è mai stato insegnato loro a fare altro. Eppure qualcuno, di recente, m'ha detto: il tuo futuro è il tuo presente.

Non voglio che quello che il destino ha preparato per noi venga sciupato. E nei prossimi giorni farò di tutto perchè un destino si compia. Esiste il destino? Come tutte le cose, esiste, se soltanto noi ci crediamo. Che si avveri, però, dipende da noi, soltanto da noi.

Mauro Corona ha scritto di certi uomini, parlando di un faggio. Ed ha scritto: "A volte la vita ci colloca in posizioni che non abbiamo scelto noi, ma che ci costringono, nostro malgrado, all'isolamento perchè costituiamo un rischio per chi ci si avvicina". Io credo di essere uno fra quegli uomini. Oggi lo vedo.

E' finita. Quest'anno lunghissimo è finito. Non è finito solo un anno, ma un'intera stagione che è durata quattro anni. In questi anni ho ricevuto qualcosa, ma credo di aver dato anche qualcosa. Ho ricevuto molto da molte generazioni di ragazzi e, forse, più degli altri, dall'utima classe di quest'anno poichè sapevano che per me questo era un anno difficile. Di questi quattro anni ricordo soprattutto l'ultimo, e quello che mi rimane, e forse mi ripaga da solo di tutto il resto, è quello che m'hanno detto due alunni (un ragazzo e una ragazza), e cioè: "E' stato davvero un piacere conoscerla" e "Non la dimenticherò mai". Ragazzi, anch'io non vi dimenticherò mai e anche per me è stato davvero un piacere conoscervi. Quanto al resto, quanto alle persone che m'hanno deluso e che io, probabilmente a mia volta, senza volerlo, ho deluso, su tutto questo passerà presto il silenzio, come cala il sipario su una recita. Io credo soltanto Dio, se c'è, possa giudicare il comportamento degli uomini - perchè solo Dio legge nel cuore della gente, al di là delle parole che dicono e dei sorrisi che fanno. E io credo di non avere nulla davanti a Dio di cui pentirmi o vergognarmi. Sono stato, semplicemente, sempre e comunque fedele a me stesso e ai miei principi e, come accade sempre, ho pagato per questo un prezzo, cosa che altri non fanno e non avranno mai il coraggio di fare. Ma il mondo non dà mai onore al merito. Questo è il tempo del conformismo dilagante, questo è il tempo dei piccoli piccoli uomini. E questo è il tempo delle menzogne. Ma, come ogni tempo, questo tempo non durerà in eterno. Oggi me ne vado e saluto voi che restate in questo vostro piccolo piccolo mondo. Oggi 24 giugno 2010.

La cosa che più mi amareggia oggi che vado non è il fatto di andare, nè di lasciare, ma sono le persone. C'era una persona di cui mi sono sempre fidato, anche quando sapevo che avrei dovuto non farlo - c'era una persona di cui mi fidavo, anche quando litigavamo. Poi, ieri, ho saputo per caso di un colpo basso che m'aveva lanciato - e, allora, ho supposto anche altri suoi colpi bassi in passato, che non ho mai veduto. Io sapevo che questa persona era amica di altri, ma ho sempre creduto che fosse anche amica mia: oggi so che, probabilmente, questa persona non è mai stata amica mia, ma soltanto di altri. E' che è insito nella mia natura (e oso pensare nella natura umana) fidarmi di qualcuno, ogni tanto. Sapevo il rischio - e l'ho corso. E' come giocare d'azzardo. Lo sapevo. E' la vita, come un giro di ruota. La ruota è girata. Oggi è un giorno - domani è un altro giorno. Al giro di domani. Oggi, giugno venticinque.

E' stata una giornata terribile - dominata da sensazioni ambivalenti. Ho lavorato: ho ammassato e smassato fieno, portato a casa, c'era il sole, poi è piovuto. Ma il mio cervello lavorava da sè, nonostante il corpo andasse per suo conto. Da una parte le parole taglienti come rasoio di una persona hanno fatto sorgere in me molti sensi di colpa e mi sono domandato per l'ennesima volta che cosa sbaglio nei rapporti umani e se davvero, in fondo, è sempre colpa mia. E mi sono domandato se davvero tutto il positivo del mondo è in lei (e in tutte quante le altre persone) ed il negativo in me. Dall'altra, l'affetto e la stima di altre persone mi hanno fatto capire che, forse, io ho sempre cercato la stima e la comprensione delle persone sbagliate. Io a volte vorrei chiedere scusa, ma di cosa? E' esistita una persona che aveva il potere di farmi sentire sempre in colpa. Anche dinnanzi all'evidenza, lei sembrava sempre innocente e pura - ed io, alla fine, anche dinnanzi all'evidenza, ho sempre creduto che lo fosse e che la colpa fosse soltanto mia. Anche oggi mi sono sentito in colpa e ho dubitato d'aver mai capito qualcosa. Ma non voglio più sentirmi in colpa. E, forse, alla fine oggi sto capendo che è inutile far dipendere la propria felicità (o gran parte d'essa) dalla comprensione altrui. Oggi, giugno venticinque.

Come rasoi - tre righe di parole, scritte per ferire. Le ferite sanguinano, poi rimarginano, ma rimangono le cicatrici. Oggi la ferita sanguina ancora, anche se il taglio risale a due giorni fa. Ma il sole caldo dei campi la rimarginerà.

Oggi sono stato al cimitero. Prima ho visitato la tomba di mio nonno materno, poi quella di mia nonna paterna e allora ho ricordato che quand'è morta mia zia ha voluto che noi tutti nipoti scrivessimo ciascuno un pensiero per la nonna, e quei pensieri sono stati seppelliti insieme a lei. Un giorno, quando riapriranno quella tomba per trasferire i resti negli ossari, riapriranno anche i nostri pensieri di allora. Questo ho assurdamente pensato: che i nostri pensieri ci sopravvivono, e che i morti rivivono ogni volta che noi li pensiamo. Oggi, giugno ventinove.

Il passato, a poco a poco, sta diventando passato. Basta saper aspettare.

Vedo l'oceano davanti a me, un oceano in cui si perde lo sguardo senza intavvedere nulla. Ma, al di là dell'oceano, ci sono infiniti porti e, al di là di questi porti, ancora infiniti oceani. Oggi è già domani, ieri ormai non è quasi più. Ma il saggio dice che l'uomo, vivendo fra il passato e il futuro, dimentica l'oggi, cioè quello che ha davanti. Bisogna imparare a guardare con l'occhio del corpo e non soltanto con quello della mente. Ma un altro saggio dice: se l'uomo si fosse accontentato del solo sguardo del suo occhio, non avrebbe mai cercato quello che non riusciva a cogliere con lo sguardo. Dunque? Ci sono due sguardi, così come ci sono due saggi, così come ci sono due felicità. C'è la felicità di chi si accontenta del proprio sguardo, e quella di coloro a cui il loro sguardo non basta. C'è chi gode del possesso e chi della ricerca. La differenza è che una felicità è a portata di mano, l'altra no, perchè chi cerca non sa se troverà, ma chi gode, ha già trovato.

Ci sono momenti della vita in cui tutte le contraddizioni che sono in te esplodono e sei come ad un punto di rottura: in questi momenti o l'uomo si fa sopraffare e, per così dire, annientare dai suoi stessi pensieri, o trova la forza per risorgere. Questi momenti sono pericolosi, ma sono anche la più grande possibilità che può essere data ad un essere umano. Nietzsche disse che dopo l'uomo c'è il nichilismo e, dopo il nichilismo, per chi ne avrà avrà il coraggio, ci sarà il superuomo. Nietzche morì. Ma morì da superuomo? Credo tutti coloro che sono morti da superuomini, in fondo, avrebbero voluto essere semplicemente degli uomini: è che non è loro riuscito, mai. Forse è stato così anche per Piero Ciampi e per molti altri. Eppure questi punti di svolta, questi tornanti della vita sono occasioni per scavare dentro se stessi e per rinascere. Di un anno mi rimane un'opera d'arte, che ho scolpito col sangue e le lacrime. Di un anno mi rimane un tornante da percorrere. Una vecchia canzone diceva: "tra un minuto il giorno nascerà e l'uomo che io ero morirà".

Lavorare. Quando lavori fisicamente e la fatica la senti, quando ammassi fieno sotto al sole battente o imballi con la polvere che ti penetra nei polmoni e ti impiastriccia la pelle, o quando impali e le gocce di cemento ti colano lungo il petto e la polvere sale fino agli occhi, allora tu ti domandi: perchè questo sforzo? Io non lavoro per guadagnare, anzi, per lo più, ve bene se ci vado a pari, non contando il mio lavoro. Lo faccio perchè devo, perchè le case vanno mantenute, sennò crollano, i campi vanno puliti, sennò si ricoprono di boscaglia, le bestie, che pure loro puliscono, vanno alimentate, sennò muoiono, etc. E allora, quando penso a me che lavoro sotto al sole, come molti altri disgraziati che, però, lo fanno per i soldi, mentre la gente va in vacanza o si rilassa all'ombra oziando, allora io dico a me stesso: auguariamoci qualcosa, chiediamo qualcosa a Dio in cambio di questo lavorare a cui sono inchiodato, come una maledizione, a cui sono sempre stato inchiodato, fin da piccolo. Tu sei convinto di meritare, tu meriti, ma poi, quella cosa che hai chiesto va ad un altro, che casomai non ha mai fatto un soldo di lavoro nella sua vita - perchè quando non hai mai lavorato fisicamente, non hai mai veramente fatto fatica, e io compatisco quegli stupidi scribacchini che, per il solo fatto di avere un pezzo di carta fra le mani, si danno infinite arie di speriorità rispetto ai lavoratori manuali. Dunque tu meriti, tu sai di meritare, ma poi quello che tu volevi va ad uno che non ha mai fatto un soldo di lavoro, ad uno la cui vita è sempre filata dritta come un'autostrada e che si può, perciò, anche pemettere d'essere simpatico, di fare stupide battute. E allora tu dici: dov'è Dio la giustizia di questo mondo? C'è, Dio, giustizia da qualche parte a questo mondo? E allora vorresti spaccare o distruggere o, semplicemente, andartene. Ma ti rimane la domanda: perchè questo sforzo? Perchè questa fatica che ti consuma? E tu dici: se soltanto resisto, se reggo lo sforzo, se continuo, ancora una volta, per l'ennesima volta, allora avrò un premio, merito un premio, Dio, lo merito. Lo dici, e lo speri: ma poi?

Se guardo indietro vedo molte delusioni, molti castelli crollati (li vedo crollare, di continuo), vedo le relazioni umane deteriorarsi, le persone che un tempo tu rispettavi, ammiravi ed, in un certo senso, amavi che ora ti odiano e che tu stesso, a tua volta, odi, e ti domandi: dove ho sbagliato? Perchè tutto questo? E questa domanda ti scava nel profondo, sino a ferirti, ma è una domanda cieca, senza risposta, destinata a richiudersi nel silenzio. In questi casi, che mi conforta è la potenza del caso, quel sottile piacere che c'è nell'avventura, nel viaggiare senza meta, girando le strade, dormendo dove capita, non sapendo chi vedrai, cosa incontrerai, come facevamo da ragazzi. Quest'estate voglio recuperare quel modo di viaggiare che era un tempo: non come la gente che va da qualche parte, ma come quelli che vanno, non si sa verso dove e verso cosa. Sarà la mia cura, dopo il lavoro.

La pazienza. Mi rendo conto che, per quanto detesti molto di questa società, una cosa l'ho in comune con essa: la poca pazienza che, detto altrimenti, significa: la fretta. La pazienza che un tempo avevo, e che già non era molta, oggi è diventata quasi nulla. Oggi non riuscirei più a passare ore ed ore facendo i chiaroscuri a matita su un disegno e, sinceramente, faccio fatica a girare per i boschi cercando minuziosamente funghi che, spesso, se arrivano, arrivano dopo ore ed ore di ricerca. Eppure questa mattina, girando per il bosco, ho percepito il ritmo della natura, che è lento. L'acqua scendeva lenta, regolare, giù dal torrente, i rumori delle foglie, il conguettio degli uccelli, tutto regolare, lento, sempre uguale a se stesso da secoli. E allora mi sono detto: perchè questa fretta, quando la natura è così lenta, così placida? Perchè questa fretta affannosa: e poi verso dove? Verso cosa? E ho pensato a quando si tagliavano i boschi a mano, con la sega, le tacche e la mazza, ai ritmi di allora, alla fatica d'allora che, però, esigeva i suoi tempi. Ed ho pensato poi alle motoseghe di oggi, ai verricelli, ai trattori, etc. Oggi non c'è più poesia, perchè non c'è più lentezza. Oggi tu lavori nel bosco, non lo ascolti. Forse dovrei imparare a recuperare questa lentezza, ad ascoltare anzichè voler parlare, ad aspettare anzichè correre e, soprattutto, a godere dell'oggi, senza lavorare affannosamente per il domani o corrodermi nel ricordo di quello che è stato o nel rimpianto di quello che non è stato. Oggi ho pensato come l'uomo saggio che non sono. Ma questo uomo saggio che non sono, in fondo, credo lo sia J. Oggi, luglio cinque.

La comprensione altrui. Ho passato gran parte della vita inseguendo questa comprensione altrui, che non ho mai trovato, e, anche quando mi sembrava d'averla trovata, era soltanto un'illusione. Ma oggi io credo che questa sia soltanto una chimera. Non troveremo mai la comprensione degli altri, ed ogni volta che saremo sinceri, saremo anche, immancabilmente, fraintesi. Dunque, non vale neppure la pena di ricercare quello che non si può avere. E' destino dell'uomo essere solo, sempre, anche quando non è solo. E, quanto più tu non sei una persona comune, tanto più tu sarai solo e incompreso. Se non vogliamo soffrire, non dobbiamo aspettarci dalle relazioni umane quello che non possono dare. Eppure un tempo coltivavo un sogno che è vecchio come Rousseau: se soltanto l'uomo fosse trasparente all'uomo, se soltanto tu potessi penetrare l'animo del tuo simile col solo sguardo, senza bisogno di parole. Se soltanto potessimo fare a meno di questo sortilegio che sono le parole, che sono fatte per mostrare, ma che possono essere usate anche per nascondere. Se soltanto avessi potuto vedere dentro una persona, al di là delle parole che ha detto e delle azioni che ha fatto. Se soltanto questa persona avesse potuto vedere dentro di me, al di là delle azioni che ho fatto o delle parole che ho detto. Ma non ho potuto, perchè non si può. Perchè siamo soltanto uomini - e questa è la nostra condanna.

Oggi è stata la pace - per quanto a distanza. Ora potrò dimenticare in pace e senza più rancori. Eppure la pace non significa che io abbia compreso. Per capire veramente e per imparare, occorrerebbe la garanzia della sincerità da parte degli altri. Occorrerebbe la garanzia che stiamo giocando e abbiamo giocato sempre a carte scoperte. ma tu puoi saperlo di te, non degli altri. Ti resterà sempre il dubbio di avere giocato una partita in cui tu solo giocavi a carte scoperte. Eppure oggi 9 luglio 2010, la ferita s'è rimarginata e io ho riascoltato una voce che non ascoltavo più da un anno. Grazie.

Ho scavato dentro me stesso. Ho passato una vita intera a scavare dentro me stesso e credo gli incontri, i fallimenti, le persone, siano stati solo occasioni perchè io scavassi dentro me stesso, sempre più in profondità, sino a sentire il dolore. Se un giorno i miei testi saranno messi su un tavolino, l'uno dopo l'altro, quelli più veri, quelli più profondi, sono il risultato di questo scavo in me stesso. Anzi, se dovessi definire cos'è stata l'arte per me, direi che è stata questo lungo estenuante infinito scavo.

Il passato, quello che è stato, quello che non è stato, quello che hai visto, quello che non avresti voluto vedere - il passato, come un'ombra sul presente, come un sortilegio di cui non riesci a liberarti. Bisogna cancellare il passato. Bisogna vivere l'attimo. Bisogna non aspettarsi nulla, non volere nulla, non sperare in nulla e prendere quello che capita, ogni volta che capita. Bisogna imparare a farlo. Questo è il mio proposito per l'avvenire.

Da qualche parte nella Bibbia (mi sembra nel libro di Ezechiele) c'è scritto: avete voi patito tutte queste sofferenze, invano? Io lo domando a te, Dio: dov'è il premio, dov'è la ricompensa, dov'è la giustizia? C'è un premio, c'è una ricompensa e c'è una giustizia che non sia quella dell'al di là, o tutto è soltanto oppio dei popoli?

Il mio proposito per l'avvenire: fare tutto quello che è contro la mia natura. Voglio dimostrare a me stesso che non esiste una natura, che ciascuno è quello che deciderà d'essere. Ma, soprattutto, d'ora in poi non darò più nessuna importanza alle persone, nè cercherò la comprensione altrui. D'ora in poi sarò una macchina da guerra. L'ho promesso a me stesso.

Quando ciò che era vicino diviene lontano, è ormai passato. Ricordo il punto di vista di alcuni miei ex colleghi quando facevo l'insegnante - perchè cosa farò domani non lo so ancora. L'ho ricordato oggi per qualche associazione mentale. Loro pretendevano di abbassare la condotta per via del vestiario più o meno discinto di questa o quell'allieva. Io sono sempre stato contrario, nel senso che non ci faccio caso. Non è questo che crea un problema di condotta. Mi sembra assurdo abbassare la condotta a una che porta una scollatura larga, ma è corretta, sincera, diligente, etc., e non abbassarlo ad una ipocrita, infida, falsa, che, però veste del tutto accollata e coi calzoni lunghi. E, del resto, il problema, per me in generale (al di là dell'ambito scolastico), non è il mostrare il proprio corpo, ma è la malizia con cui lo si fa. Nei paesi del nord le ragazze girano spesso in topless, anche nei parchi delle città, così come camminano a piedi nudi per le strade, ma fanno tutto questo senza alcuna malizia, come una cosa del tutto naturale, non lo fanno per farsi vedere o ammirare dai maschi, ma perchè è per loro naturale farlo. Nei paesi mediterranei, invece, non c'è la stessa naturalezza, ma, al contrario, una grande malizia. Tornando al fatto, trovo molto ipocrita il punto di vista di questi miei ex colleghi. Trovo sempre ipocrita chi guarda alla forma e non alla sostanza delle cose. E guardare a come uno si veste (o non veste) è guardare alla forma della forma.

Per l'avvenire non voglio più soffrire. Nella mia vita ho sofferto molto. Molte sofferenze non erano evitabili. Ma altre lo erano, se soltanto avessi avuto un cervello diverso. D'ora in poi mi darò un metodo per non soffrire più. Ho iniziato a sperimentarlo. Questo metodo implica, innanzitutto, di cambiare in parte la mia stessa natura. Lo farò. Lo posso fare. Quando la tua natura (il carattere, il cervello o che dir si voglia) è causa della tua sofferenza, tu devi mutare la tua natura. Tutto il passato m'insegna che devo mutare la mia natura, per sopravvivere. Del resto questa è essa pure una legge di natura: che ogni vivente tenda sempre e comunque a vivere. Mettete una pianta all'ombra: il suo tronco devierà dalla linea retta che gli era naturale, pur di raggiungere la luce. Così è l'uomo.

Cos'è arte? Parlo della scrittura. Arte non è, per me, inventare storie. Le storie inventate sono opera di fantasia, non opera d'arte e chi ha fantasia non è detto che sia anche un artista. Io per principio scrivo ciò che è verosimile - non dico vero perchè, spesso, la verità è trasfigurata, ma anche ciò che non v'è di vero deve poterlo essere. E' per questo che elimino il lieto fine: perchè nella vita non l'ho mai incontrato - almeno sino ad ora. Nella vita non c'è mai un "e vissero felici e contenti", come nelle fiabe. Ma allora, cosa distingue una storia da film o da romanzo dalla realtà? Altrimenti tutto sarebbe romanzesco. Romanzesco è ciò che, nella vita, è fuori dall'ordinario. Certi comportamenti, anche di persone cosiddette "normali", sono da film quando escono dalla norma. Certi personaggi che sfuggono alla normalità (e che spesso la normalità classifica come patologici) sono da film. Tutto ciò che è medio, normale, razionale, ponderato, non è romanzesco e questo essere medio ponderato razionale è quello che sono la maggioranza delle persone per la maggioranza del tempo della loro vita. Il paradosso dell'arte è che, dai più, può essere tollerata (e anche apprezzata) soltanto dentro ad un romanzo o incorniciata nello schermo di un cinema: ma quando l'arte si fa realtà, quando bussa alla tua porta, diventa qualcosa di pericoloso, qualcosa che fa paura e da cui la gente fugge. Credo solo gli artisti (e quelli veramente tali e non soltanto sulla carta) possano vivere la propria arte: gli altri si limitano ad osservarla da lontano, ad una distanza di sicurezza. E credo che se c'è qualcuno che possa apprezzare un artista come persona e non soltanto come artista, per lo più, è un altro artista.

Il ricordo. Il vuoto si popola di ricordi. Non basta andarsene per dimenticare. Ci vogliono nuovi ricordi che prendano il posto dei vecchi. Chiodo scaccia chiodo, diceva Pavese. Ma quattro chiodi fanno una croce, diceva anche. Per un'associazione mentale penso che io posseggo la profondità dei grandi poeti, la loro malinconia, il loro pessimismo. Ma la malinconia e il pessimismo d'un Pavese o d'un Leopardi in me coesistono con la rabbia e l'aggressività d'un Nietzsche o, se cito un film, d'un Taxi driver. E' paradossale, ma la mia aggressività deriva dal fatto stesso che sono troppo sensibile.

Il successo. La fama. Che cosa sono per me? Una sorta di rivincita - sulla vita, sul passato, su quello che avrei voluto e che non ho avuto, sulle persone che non mi hanno dedicato il loro tempo, sulle persone che a me hanno preferito altri. In verità un tempo i miei sogni erano molto modesti e, ancora adesso, sono convinto che la felicità stia nelle piccole cose, ma, ormai, queste piccole cose, anche se le dovessi ottenere un giorno, probabilmente non mi basterebbero più, perchè voglio la mia rivincita. La fama non è questione di soldi, è questione di pubblico, d'essere ascoltati, forse, anche d'essere invidiati. Ma la maggioranza della gente ricerca il successo per i soldi - e, questo, in fondo, fa della fama e del successo due cose senz'anima. Oggi sono nella terra di mezzo, dove non sono ancora nulla e non ho ancora nulla. Sono in quel mezzo in cui pesano soltanto i brutti ricordi, i fallimenti, i treni che hai visto passarti davanti, senza poterli fermare, le parole che non hai potuto dire, in quel mezzo in cui sei solo, soltanto con la volontà ferrea e l'autodisciplina di chi vuole la sua rivincita. Ma la terra di mezzo è quella terra in cui puoi ancora perderti.

Domani parto. Farò all'incirca lo stesso viaggio itinerante che feci dieci anni fa. Allora eravamo in tre - ed il trio esisteva ancora. Oggi di F. non so più nulla. So che ha combattuto la sua battaglia per la vita - e credo l'abbia vinta. J. è rimasto il mio miglior amico - il mio unico amico: credo oggi il suo più grande assillo sia dare un senso alla sua vita e trovare un posto in questa società che per lui, e forse anche per me, è estranea, lontana e senza significato. Rifarò lo stesso viaggio di allora, ma questa volta lo rifarò da solo. Questi dieci anni sono stati gli anni in cui ho lavorato di più, in cui ho faticato di più ed ho sperato di più. Ma non ho ottenuto nulla in dieci anni di quello che volevo. La vita è una cosa che ti mette alla prova ogni giorno. Riparto dal nulla, ma dieci anni, con tutti i treni che ho veduto passare, senza poterli fermare, non sono stati sufficienti ad abbattermi. In un film c'era un personaggio che diceva, issato sopra l'albero di una barca, nel pieno della tempesta: Dio, non sei ancora riuscito ad abbattermi, dovrai fare uno sforzo molto più serio per riuscire ad abbattermi. Anch'io molte volte mi sono sentito come quel personaggio ed ho visto nella vita una guerra in cui tu sei solo e combatti contro tutto e contro tutti, combatti soltanto per dimostrare a te stesso ed al mondo che puoi farcela, che niente e nessuno può abbatterti. Poi ci sono momenti in cui depongo le armi, mi fermo, mi guardo intorno, ed aspetto un segno dal destino, un segnale che mi indichi la strada: perchè io lo so che c'è una strada ed un cammino, da qualche parte in questa x sconosciuta che si chiama "futuro". In quei momenti mi sembra di avere fatto la pace con Dio (altra battuta di quel film) e, in certo modo, mi sento felice. In fondo, io amo Dio e credo anche Dio ami me, perchè Dio, se mette alla prova la tua volontà, la tua fiducia, vuol dire che ti ama più degli altri. Sono le sconfitte, i dolori, che ci rendono migliori, se soltanto riusciamo ad imparare da essi e a non farci abbattere, perchè tutto quello che è una suprema possibilità è anche un supremo pericolo. Il viaggio che inizio domani è una metafora della mia esistenza in questo momento. Riparto dal nulla, di nuovo, andando da qualche parte, ma senza sapere esattamente dove, senza sapere i volti che incontrerò, le voci che udirò, la felicità che troverò o non troverò. Riparto sapendo che posso contare solo su me stesso e sulla mia determinazione. Ma riparto con la fiducia che lassù, da qualche parte, c'è qualcuno che mi veglia e c'è una stella che un giorno splenderà soltanto per me, se soltanto io avrò il coraggio e la determinazione di cercarla. Ci sono tornanti nella vita, e credo di essere giunto ad un tornante, come dieci anni fa. Questo viaggio è il primo passo di quel tornante e della nuova stagione che sta per venire. Oggi, due agosto.

Quasi novecento chilometri in quattro giorni, solo con me stesso, la Toscana bassa che mi scorreva davanti. Riparto da qui. Da quest'estate 2010.

Sono stato a Nomadelfia. E' difficile non subire la fascinazione ed una sorta di ammirazione per questo popolo che ha deciso di vivere fuori dal mondo, in un mondo rifatto da capo. Ed è difficile non subire la fascinazione di un popolo che ha saputo allevare generazioni di nuovi ragazzi e ragazze più profondi, più solidali fra di loro e, forse, anche più felici. Ma questo popolo non si sottrae al principio cardine che struttura ogni società, e cioè le regole. Qui tutto è incasellato dentro una regola, che giunge sino a decidere delle famiglie e della loro riunione per statuto in gruppi familiari. Tutto è stato già deciso. Dinnanzi a ciò, e per quanto io veda che questa tipologia di società è probabilmente in grado di creare generazioni di uomini e donne migliori e più felici di quelle che alleva il mondo circostante, io mi sento un individualista. E la più grande forma di individualismo rimane l'anarchia. Io non accetto se non le regole che uno impone a se stesso. La società normale, coi suoi infiniti difetti, lascia ampi spazi alla libertà individuale, spazi che, invece, qui sono assenti. Io credo la via d'uscita da questa società sia soltanto una via individuale, un percorso personale che uno può intraprendere nella sua vita e che può coinvolgere solo lui o, se lo vorrà, eventualmente la sua compagna e la sua famiglia. Ci sono uomini che stanno facendo questo, ciascuno a suo modo, ma non lo fanno per creare una società diversa, bensì per creare una modalità di vita diversa per se stessi. E' un'innegabile verità vecchia come il mondo che ciò che salva un uomo non necessariamente salva l'umanità: ma questa è la verità che sfugge a tutti i legislatori, anche ai più grandi.

E' la notte di San Lorenzo. In questa notte molte persone cercano di vedere una stella cadente, per esprimere il loro desiderio. Anch'io un tempo l'ho fatto. Gesù Cristo disse: chi cerca, trova, a chi bussa sarà aperto, a chi chiede sarà dato. Ho cercato e non ho trovato, ho bussato e non mi è stato aperto, ho chiesto e non mi è stato dato. Oggi non mi aspetto più nulla. Quello che faccio è per inerzia. Se cerco è per dire che ho cercato, ma non perchè io speri di trovare. E' come quella canzone di Piero Ciampi: "questo è un miserere, senza lacrime, questo è il miserere di chi non ha più illusioni". E pensare, Dio, che un tempo ero uno di quelli che ancora credeva e sperava - nonostante tutto.... Qualcuno mi ha detto che mi piace fare la vittima, ma che non la sono. Forse hai ragione. Ma, in fondo, ho sempre voluto cose molto piccole - anche da te. Questa è la notte di San Lorenzo, ed è qui, a ricordarmi che le stelle cadono, ma i desideri, per quanto piccoli essi siano, non si avverano - mai. Dunque, tanto vale non averne - più. Riparto anche da qui - da questa notte senza più stelle. Oggi, 10 agosto 2010.

Che cosa concorre a fare di un uomo l'uomo che è? Io credo non esista una natura: esistono delle circostanza, che ci rendono quello che siamo. Quando tu impari a vedere il dolore intorno a te ed a provarlo su te stesso, tu divieni buono perchè quando vedi il dolore sugli altri tu sai cosa vuol dire e, allora, per quanto puoi, cerchi di alleviarlo agli altri come avresti voluto che gli altri avessero fatto con te. Quello che siamo, a volte, è una scelta, anche in questo caso dettata dalle circostanze. C'è una legge naturale, che è quella per la quale ciascuno, per quanto può, cerca di risparmiare a se stesso dolore. Dunque, se tu sai che certi comportamenti o anche quello che tu sei stato sino ad ora t'ha causato dolore, tu decidi di non esserlo più, di essere un'altra persona. Anche questo capita, in certi gradi della vita. Io ho sempre creduto sino ad un certo momento che fosse possibile essere sinceri, ed anche essere compresi, ed ho sempre creduto che in questo risiedesse la parte maggiore della felicità, nel trovare la comprensione degli altri esseri umani. Ma oggi credo che quello che sei veramente, lo devi tenere per te stesso: il resto è soltanto una recita. La vita è una grande recita - senza sincerità. Anche se non ci piace - è questo. Queste sono le relazioni umane.

Regola numero uno: non ricordare più. Ricordare i brutti ricordi non serve a nulla, se non a reiterare il dolore di allora. Eppure esiste un meccanismo nella mia mente per cui ogni brutto ricordo io lo ripenso e ripenso e ripenso, sino allo sfinimento, e per dimenticare devo riempire la mente in qualsiasi modo: devo fare, girare, incontrare, anche senza meta, anche senza scopo. Ma la regola che mi sono dato mi impone di non ricordare, anche quando sono comodamente seduto a far niente. Devo riuscire a non ricordare: niente più parole dal passato, niente più immagini. Il passato deve diventare passato anche nel ricordo. Il passato non è mai esistito, se solo lo vogliamo.

In questo momento J. sta vedendo crollarsi davanti il suo sogno. Aveva una visione idilliaca della campagna e del lavoro contadino: io gli ho sempre detto che non è così. Quando lavori nei boschi e tagli legna e, soprattutto, quando carichi, non senti il cinguettio degli uccelli, ma soltanto la fatica, e anche quando riempi di balle un trattore o rastrelli sotto al sole, tu non vedi l'idillio, ma soltanto senti la fatica. E' brutto rimanere senza un sogno - ma doveva accadere. J. ha sempre pensato che faceva una vita di merda, ma che ce n'era un'altra migliore, da qualche parte, nelle campagne o nei boschi. Non so come ne uscirà, ma comunque ne uscirà, e anche se il suo sogno cadrà ed entrerà in una crisi ancor più profonda di quella in cui si trovava fino ad ora, qualcosa avrà fatto ed il suo tempo e la sua fatica sarà stato speso non in un lamento. Questo deve essere l'anno e lo sarà - anche per me. Ques'anno s'è aperto d'inferno e per ora è finito in inferno. Quest'anno sono crollate delle speranze dopo che ne erano crollate altre, ma quest'anno ho deciso di non assecondare mai più il vento: d'ora in poi camminerò contro vento e remerò contro la corrente, se necessario. Per un certo periodo ho messo i remi in barca e mi sono lasciato tascinare dalla corrente. Per un certo periodo ho pensato che le cose sarebbero andate a posto da loro, che Dio non è un nemico, in fondo, e che dopo la tempesta viene il sereno. Ma oggi tutto ricomincia e so che Dio mi vuole mettere alla prova. Questa è nuovamente una guerra in cui tutto te stesso viene messo alla prova, tutta la tua volontà, la tua dedizione, la tua capacità di sopravvivenza, la tua fiducia. Per questa parte dell'anno che mi rimane, come fosse l'ultima parte della vita che mi rimane da vivere, non aspetterò più, ma andrò a prendermi quello che mi spetta, tenterò tutte le strade, sposterò le montagne, se dovrò farlo, ma mi prenderò la mia parte di felicità in questa guerra infinita che si chiama "vita". Perchè lo merito - e Dio solo lo sa quanto.

Il pessimismo è una malattia - da cui non si guarisce. Non nasci pessimista, ma lo diventi, a poco a poco, con gli anni - e quando lo sei diventato, il pessimismo non ti abbandonerà mai, come la più fedele delle compagne. Il pessimismo è quella tristezza che hai anche quando dovresti essere felice. Il pessimismo non ha parole, anche se dice. Il pessimismo è l'acqua che manca nel bicchiere, il treno che vedi passare, senza che tu lo possa fermare. Ma il pessimismo, che è buio, ha bisogno della luce. Il pessimismo cerca la luce, come il suo ultimo respiro.

Steve Jobs, che non è soltanto un industriale, ma è un uomo (e un uomo non comune), ha detto, rivolgendosi ad una platea di studenti universitari: "Siate affamati. Siate folli". Era un modo per dire che soltanto i folli e gli affamati cambiano il mondo e danno un senso alle loro vite. Gesù Cristo non si stancò mai di dire: "chiedete e vi sarò dato, bussate e vi sarà aperto, cercate e troverete. E se non vi apriranno, bussate più forte, se non vi daranno, gridate più forte, se non troverete, non smettete di cercare". Georges Moustaki cantava: "No, non sono mai solo con la mia solitudine". In quella stessa conferenza Steve Jobes disse: "la vita è congiungere punti, ma questo lo puoi fare soltanto col senno di poi. Se oggi guardo indietro vedo che tutto quello che m'è successo, anche di male, in verità, aveva un senso e, alla fine, è stato un bene". F. Nietzsche disse: " Che cosa rende eroici? Muovere incontro al proprio supremo dolore e, insieme, alla propria suprema speranza".

Oggi J. mi ha scritto: "E' dura. Alterno la legna a maiali e capre. Ma non mollo". Non mollare, fratello mio. Questo è l'anno non cui non bisogna mollare. Bisogna tentare - tutto. Oggi agosto ventidue duemiladieci.

Sento parlare male dei Rumeni - specie da gente che non li ha mai nè visti nè conosciuti. Nella mia vita ho conosciuto molti Rumeni - e ci ho lavorato anche insieme. Ho conosciuto Rumeni delinquenti, ma la maggior parte era gente onesta e lavoratrice. E' gente attaccata ai soldi, questo sì, ma viene da un paese dove c'è un'estrema povertà, e se sta qui, lontano da casa, a fare lavori umilianti e sottopagati che nessun Italiano vorrebbe fare, è soltanto per quei soldi, dunque c'è da capirli. Molti bevono, è probabilmente la tendenza d'un popolo, ma quando sei in un paese straniero, da solo, e lavori tutto il giorno senza vedere anima viva nè parlare con nessuno, tranne quando il padrone ti viene a dare gli ordini o a controllare quello che hai fatto, quando la sera torni sfinito in quel buco di casa in cui t'hanno confinato, e devi ancora farti da mangiare, etc., tutto questo diviene persino comprensibile, come il disordine della casa, etc. Ho visto gente che beveva ed era rissosa ma, quando s'è ricongiunta con la moglie e poi coi figli, che sono venuti qui, è rinata. L'uomo non dovrebbe giudicare, ma mettersi nei panni degli altri, e cercare di capire. Ma la tendenza umana è sempre quella a giudicare - spesso a priori.

Oggi ho sentito giudicare un uomo. La gente giudica negativamente chi si discosta dalla norma, chi non si adegua alle regole cui si adeguano tutti, chi non dice "sì" semplicemente perchè l'hanno sempre detto. La gente giudica e deride - e probabilmente la derisione è la peggiore forma di giudizio. Io invece ammiro tutti coloro che tentano nuove strade, quelli che escono dal gregge. Li ammiro soltanto per questo: per non essersi adeguati, per avere rischiato in prima persona. Li ammiro perchè sono e saranno sempre loro i traghettatori dell'umanità. Infatti, se fosse stato per gli altri, l'umanità non avrebbe mai mutato il proprio stato. Questi uomini oggi sono come piccoli rivoli d'acqua ma, col tempo, altri uomini si aggiungeranno loro, ed un giorno il rivolo diverrà fiume. A chi vede fiumi e si abbandona ciecamente alla loro corrente, io dico: non dimenticare, uomo, che anche quel fiume un tempo è stato un piccolo rivolo d'acqua che scorreva solitario. Non dimenticare la pazienza, il dolore, la solitudine, la dedizione con cui è diventato fiume.

Il dardo è tratto - ormai da tempo. Non si può più tornare indietro, anche volendo. Ho puntato tutto quello che avevo. E' come quando giochi alla roulette e punti tutto quello che hai su un numero: puoi vincere o puoi perdere: se perdi, perdi tutto. Però, se vinci.... La gente per lo più non rischia mai così tanto. La gente gioca sul sicuro. Eppure.... Il fatto è che ho giocato qualcosa di più che i soldi.

Non parlerò più. D'ora in poi parlerò soltanto con le mie opere, siano esse una scultura, un testo teatrale, una sceneggiatura. E' finito quel tempo durato più di dieci anni in cui ho cercato la comprensione delle altre persone ed ho inseguito il mito della trasparenza, dell'essere se stessi a tutti i costi, dell'assoluta sincerità, con sè e con gli altri. E' stato come giocare a carte scoperte in un gioco in cui tutti coprivano le loro. Ed ho perso. Queste sono le ultime parole che scrivo. Requiem ad una stagione - che non c'è più. Oggi, 23 agosto 2010.

Le persone ti deludono, prima o poi - anche se te ne rendi conto un poco alla volta. Le persone dimenticano. Bisogna diffidare della gente. Questo è un mondo di lupi, dove bisogna essere dei leoni. Ma quando la gente mi delude, io ricordo l'unica persona - a parte mia madre - che in tutti questi anni non mi ha mai deluso, e questa sei tu, J., amico mio, fratello mio. Gli anni sono passati da quando ci siamo conosciuti - e sembra una vita. Allora tu portavi i capelli lunghi e io li portavo corti: oggi è il contrario. Ricordo che quando ci conoscemmo il rumore storpiò il tuo nome e capii "Carmine". Ricordo il tema di inglese, che lessero in classe, quello in cui tu dicevi che da piccolo ogni sera tuo padre ti dava la buonanotte, leggendoti una fiaba, o qualcosa del genere, e ricordo che mi parve un padre così irreale rispetto al mio. Questo mi insospettii. Poi seppi - e fui l'unico a saperlo - che tu non avevi mai avuto un padre. M'è difficile dire le cose a voce: per me è sempre stato molto più facile scriverle. Quello che vorrei dirti, fratello mio, è che ti ringrazio per tutti questi anni in cui tu ci sei stato, quando ne ho avuto bisogno, e quello che vorrei dirti è che io non dimentico - mai. Tu sei stato con me sul carro dei perdenti quand'ero un perdente, ma sarai con me sul carro dei vincitori quando sarò un vincitore: te lo prometto. Prometto che se un giorno riuscirò ad uscire da questa merda, tornerò, e tirerò fuori anche te. Questo non te l'ho mai detto, ma l'ho giurato a me stesso già molti anni fa. Questo accadrà, un giorno, lo prometto a te e a me stesso. Non so del domani, non so del dove e del quando, ma so che se guardo indietro, se guardo a quello che rimane, vedo anche Aurora. Quello che sarà, a parte l'impegno e la dedizione, a parte le speranze ed i Soli che sorgono e tramontano, solo Dio lo può dire, ma se c'è un destino e se è nel destino di ogni uomo una donna e di ogni donna un uomo, questa donna, Aurora, io so che sei tu. Io lo so che non sono una persona facile, so che sono capace di grandi sbalzi d'umore, dall'estrema depressione all'estrema euforia all'estrema rabbia, che sono eccessivo, plateale, possessivo, asociale, fuori dal mondo, che non me ne frega niente di quello che dice la gente, so che non è facile convivere con me, perchè non lo è mai stato nemmeno per me (come diceva quella canzone di Vasco), ma so che tu mi capivi e riuscivi a vedere anche quello che c'è di buono in me - anche quando tu ti arrabbi e dici che con me non si può non essere duri, io lo so che mi capisci. Tu hai soltanto paura. E' per questo che non m'è mai riuscito d'avercela con te, neppure adesso. Posso avercela con altri, ma non con te. Io so che se c'è un destino, un giorno le nostre strade si incontreranno di nuovo, e allora sarà la volta buona. E se non c'è, continuerò a credere che tu sei stata l'unica donna che mi avrebbe potuto rendere veramente felice in questa vita. Ma oggi io guardo le cose in un altro modo, persino diverso da come le guardavo sino a pochi giorni fa. Oggi sono più fatalista. C'è un detto: aiutati, che Dio t'aiuta. Tenterò strade, percorrerò montagne, ed ho fede che le strade e le montagne percorse e scalate daranno il loro frutto. Tu devi tentare, Dio darà il frutto. Come Johnny Cash, con la maturità ho recuperato, a mio modo, la fede. Anche se ho un mio Dio personale - perchè non mi accontento del Dio che hanno tutti. Oggi, settembre 2010.

Se guardo al passato, anche al passato recente, non provo nulla. Posso aprire cassetti guardandoci dentro e rimanere indifferente. Nessuna emozione. Metabolizzato. Il passato è passato. Anche se il presente non è ancora quello che deve essere. Sono sulla via della transizione verso il futuro. Verso quello che dovrà essere. La ruota gira, prima o poi, e fa dei vincenti dei perdenti e dei perdenti dei vincenti. Basta saper attendere.

M'è stato sottoposto un quesito cui non avevo mai pensato in questi termini: si può essere artisti se non si è, almeno in parte, dei pessimisti? In effetti la maggioranza dei grandi poeti sono dei pessimisti, così come gli scrittori: è un fatto statistico, quanto più sono grandi, tanto più sono pessimisti. Io credo che, veramente, per essere un artista, bisogni essere passati attraverso una buona dose di dolore, ed essere sopravvissuti al proprio dolore, come diceva Nietzsche. Il dolore, citando sempre Nietzsche, ti dà altri occhi, altri sensi: ti rende, soprattutto, sensibile al dolore del tuo simile che diviene, almeno in parte, anche il tuo dolore. Non dico che tu divenga interessato al dolore altrui per altruismo, anzi, può accadere il contrario, che tu ti interessi al dolore altrui e cerchi, per quanto è in tuo potere, di mitigarlo, per egoismo, perchè questo è quello che vorresti che qualcuno avesse fatto con te. Ma il dolore, ad ogni modo, fa l'artista - ed oso dire che fa l'uomo veramente uomo. Nella felicità (con rarissime eccezioni) tu non guardi agli altri, ma soltanto a te stesso: tu godi di un sentimento che è il tuo, ma non ti interessa di ciò che provano gli altri. La felicità è egoista. Il dolore è altruista. L'arte, per quello che può, cerca di mostrare agli egoisti il loro egoismo ed ai sofferenti che non sono i soli ad aver sofferto. L'arte cerca di dare agli uomini un nuovo sguardo. Cito il passo di Nietzsche, che faceva anche da prefazione al primo testo che ho scritto nella mia vita - s'intitolava "Il sole negli occhi" e credo avessi allora vent'anni. Così dice Nietzche nella Gaia Scienza: "Si indovinerà che io non vorrei congedarmi in maniera ingrata da quell'epoca di grave infermità, il beneficio della quale non s'è a tutt'oggi esaurito per me: così come sono personalmente abbastanza consapevole della posizione di vantaggio che, in generale, nell'instabilità della mia salute, vengo ad avere rispetto a tutti gli spiriti quadrati. Un filosofo che ha fatto il suo cammino passando attraverso tanti stadi di salute, e continua sempre a camminare, è anche passato attraverso altrettante filosofie, egli appunto non può fare nient'altro che trasferire ogni volta il suo stato nelle forme e nella lontananza più spirituali: proprio quest'arte della trasfigurazione è filosofia. Non siamo liberi, noi filosofi, di stabilire una separazione fra anima e corpo, come fa il popolo, siamo ancora meno liberi di porre una distinzione fra anima e spirito. Non siamo ranocchi pensanti, apparecchi per obiettivare e registrare, dai visceri congelati: noi dobbiamo generare costantemente i nostri pensieri dal nostro dolore e maternalmente provvederli di tutto quello che abbiamo in noi di sangue, cuore, fuoco, piacere, passione, tormento, coscienza, destino, fatalità. Vivere vuol dire per noi trasformare costantemente in luce e fiamme tutto quel che siamo, nonché tutto quel che ci riguarda; non possiamo affatto agire diversamente. E per quanto concerne la malattia: non saremmo forse quasi tentati di chiederci se di essa in generale possiamo fare a meno? Il grande dolore soltanto è l'estremo liberatore dello spirito, in quanto esso è il maestro del grande sospetto che fa di ogni u una x, una vera e propria x, vale a dire la penultima lettera dell'alfabeto prima dell'ultima. Il grande dolore soltanto, quel lungo, lento dolore che vuole tempo, in cui, per così dire, veniamo bruciati come legna verde, costringe noi filosofi a discendere nelle nostre ultime profondità e a sbarazzarci d'ogni fiducia, d'ogni bontà d'animo, d'ogni camuffamento, d'ogni mansuetudine, d'ogni via di mezzo, di tutto ciò in cui forse una volta riponemmo la nostra umanità. Dubito che un tale dolore renda migliori eppure so che esso ci scava nel profondo. Sia che s'impari ad opporgli la nostra fierezza, la nostra irrisione, la nostra energia volitiva, comportandoci come quell'Indiano che per quanto crudelmente martirizzato si rivale sul suo carnefice con la malizia della lingua; sia che davanti al dolore ci si ritragga in quel nulla degli Orientali chiamato Nirvana -, nel muto, rigido, sordo abbandono di sé, oblio di sé, estinzione di sé: da tali lunghi, rischiosi esercizi di autodominio uno se ne esce sempre come un altro uomo, con qualche interrogativo in più e soprattutto con la volontà di fare, da allora in poi, più domande, più profonde, più rigorose, più dure, più cattive, più silenziose, di quanto abbia fatto sino a quel momento. La fiducia nella vita se n'è andata: è la vita stessa che è divenuta problema. Non si creda, però, che con tutto questo si sia diventati necessariamente delle persone tetre! Perfino l'amore della vita è ancora possibile, soltanto si ama in un modo diverso. E' l'amore per una donna che ci crea dei dubbi. La seduzione di tutto quanto è problematico, la gioia della x è però in tali uomini più intellettuali, più intelletualizzati, troppo grande per non inghiottire come una splendida fiamma tutte le angustie del problemetico, tutti i pericoli dell'insicurezza, perfino la gelosia dell'innamorato. Noi conosciamo una nuova felicità".

Molte volte uno dice: se soltanto fossi diverso .... Quante volte lo abbiamo pensato? Se soltanto non avessimo l'aspetto che abbiamo, se soltanto non avessimo il carattere che abbiamo, se soltanto ci fossimo comportati diversamente. Molte volte nella mia vita ho pensato che se fossi stato diverso, se mi fossi comportato diversamente, magari venendo a qualche compromesso, forse le cose sarebbero andate diversamente. Forse avrei ottenuto quello che volevo. Ma, alla fine, io credo che è nel destino di ciascuno essere quello che siamo ed è nel nostro destino esserlo fino in fondo. Se è nel mio carattere comportarmi in un certo modo, lo devo fare, perchè è questo che devo essere. Quello che verrà, nel bene o nel male, è quello che dovrà venire. Perchè il nostro destino è già scritto, anche nella nostra indole, nel nostro talento. Il destino non ci capita, ma dobbiamo trovarlo.

C'è una sorta di destino nelle cose: o, almeno, c'è per chi ci crede. Se guardo all'oggi, vedo che l'anno scorso sono successi dei fatti che mi hanno spinto a prendere delle decisioni, lavorativamente parlando, che altrimenti non avrei preso in quanto irragionevoli. E' sempre irragionevole, infatti, lasciare il sicuro per l'incerto e il rischio fa per i giocatori, non per le persone quadrate. Se quei fatti non fossero successi, però, quello che è venuto dopo non sarebbe venuto. Ho rischiato, irragionevolmente, ed oggi, lavorativamente parlando, le mie condizioni sono migliori di ieri. L'anno scorso è stato duro, per la verità, ed è stato uno di quegli anni che mi hanno più cambiato, non solo professionalmente: hanno cambiato il mio modo di concepire la vita e di guardare ai rapporti fra le persone, diciamo che mi hanno cambiato esistenzialmente. Ma tutto questo, anche nella sua negatività, oggi so che doveva succedere perchè tutte le strade sbagliate che percorriamo servono a trovare quella giusta.

Anche se è durato per poco (poco più di una settimana), è stato un piacere per me conoscervi, ragazzi e ragazze. Un saluto a tutti. Oggi, venticinque settembre duemiladieci.

C'è qualcosa di difficile nel parlare ad una platea che partecipa e non soltanto fa domande, ma critica. C'è qualcosa di difficile ma al contempo di stimolante perchè ti mette alla prova e ti fa sentire che stai facendo qualcosa per qualcuno. Oggi credo che per il futuro e le generazioni future c'è qualche speranza di non essere massa. E se avremo fatto quanto possiamo per fare sì che questi uomini e queste donne non siano soltanto massa, avremo fatto qualche cosa per la quale ne è valsa la pena.

Ho visto una mostra fotografica: palazzi, paesaggi, solo palazzi, architetture, paesaggi. Ed ho visto per la prima volta quanta pace e rilassatezza c'è in un palazzo che si staglia placido sull'orizzonte o in un fiume affossato nella nebbia. Nell'uomo c'è sempre qualcosa di tragico, anche quando lo raffiguri. Nell'uomo c'è quel dolore che nella natura non c'è. Io appartengo a quelli che prediligono l'uomo perchè, in fondo, io prediligo il dolore. Ma è stato sempre così, per tutta la grande arte e la grande poesia. Eppure, un paesaggio che ti scorre davanti......

Ottobre. Cadono le foglie di un altro autunno. Ma fra poco il vento di un nuovo Novembre spazzerà via tutto.

Se c'è un cosa che ho sempre detestato in me come scrittore (e anche come persona) è il sentimentalismo, questo sentimentalismo che s'insinua dappertutto, come una malattia.

La vita è come una partita d'azzardo: tu guardi, poi fai la tua giocata su un numero. Dopo che hai fatto la tua giocata non dipende più da te: è soltanto destino. E tu non puoi che restare nuovamente a guardare.

L'uomo si fabbrica continuamente nuove speranze, anche se ogni volta sa che sarà vano. Lo fa perchè nessuno potrebbe vivere senza più speranze.

Fare le stesse cose, andare negli stessi posti: ci sono azioni che non faccio e luoghi dove non vado. Ci sono azioni e luoghi cui sono associati pessimi ricordi. Preferisco dimenticare. Un giorno, forse, tornerò in quei luoghi dove ho perso, ma soltanto quando sarò un vincitore, se mai lo sarò. Forse questa è vigliaccheria, di sicuro la è. Ma ci sono molti modi d'essere vigliacchi, come ci sono molti modi per essere coraggiosi.

Le speranze esistono soltanto per andare deluse. Dunque non c'è niente di nuovo sotto al sole. Ho fatto tre volte (o forse anche quattro) la prova del nove. L'ho fatto per me stesso, per non avere rimpianti. Novembre otto duemiladieci.

Non credo più nei casi della vita, nè nel destino. Oggi credo che tutto sia un caso - cieco. E questo caso cieco per lo più è anche ingiusto. Ma ci sono uomini che hanno imparato a remare contro la corrente.

Stanchezza. La stanchezza fa dimenticare tutto. E' il miglior antidolorifico. L'autunno porta con sè la stanchezza d'un anno intero e la stanchezza porta con sè l'oblio.

Uno spettacolo teatrale può dare nulla o poco - anche soltanto sonnolenza.

La felicità è un attimo, destinato a passare ed a diventare ricordo. E' inutile cercare di eternizzare ciò che è destinato a passare. Il mio principale errore è sempre stato quello di voler eternizzare ciò che sta nell'attimo, così, quando sono stato felice, ho sempre cercato di lavorare per creare le condiizoni a che quella felicità non cessasse e questo è stato il motivo per il quale, anche allora, non sono stato mai veramente felice. Probabilmente la felicità vera, quella completa, è soltanto degli stolti o degli animali, perchè loro, almeno loro, non guardano mai al domani.

Qual è la cosa più disumana? Uccidere l'entusiasmo di una persona. E per "entusiasmo" intendo la fiducia negli altri esseri umani. Io credo si possano perdonare molte cose, ma non perdonerai mai quelle persone che ti hanno privato dell'entusiasmo che avevi - perchè non ritorna.

Arrivare in anticipo agli appuntamenti è un modo per prendersi cura del tempo delle altre persone e, prendendosi cura del loro tempo, è un modo per prendersi cura di loro. Questa è una cosa che noi due avevamo in comune.

Non ringraziare mai qualcuno per averti ascoltato. Una società che ti fa sentire in dovere di ringraziare un'altra persona per una cosa che dovrebbe essere normale, ossia averti dato ascolto (non dico "dato retta", ma soltanto averti dato ascolto), è una società malata.

Ci sono attimi in cui tutto il tuo essere si concentra in un desiderio e tu stesso sei quel desiderio. Ma il desiderio è come ghiacco che si scioglie al sole e che asciuga il vento. Domani non ne resterà nulla.

2011. Nuovo anno. Ma tutto è vecchio. Eppure...

Ho la tendenza ad essere pessimista. L'ho maturata nel tempo. Ho la tendenza a pensare che le speranze saranno vane e i sassi lanciati sono destinati a non essere raccolti. Ma questa volta voglio sperare. Voglio attendere in modo sereno che il sasso cada a terra e faccia il suo corso. Oggi, diciotto gennaio 2011.

Ci sono persone che parlano alle folle, ma quelle stesse persone avrebbero dato tutto per parlare ad una sola persona. Eppure quella che è toccata a loro in sorte è una folla, anonima come tutte le folle.

Hanno beatificato Giovanni Paolo II. Certe volte anch'io vorrei avere un maestro, qualcuno a cui credere, a cui chiedere consiglio ed affidarmi ciecamente, ma non ho mai incontrato una persona simile, una persona che io veramente ammirrassi. Non credo sia presunzione: è che in verità il destino di certi uomini è di essere i maestri di se stessi - e questa è la cosa più difficile. Eppure avrei tanto voluto conoscerti, Giovanni Paolo, e ammirarti da vivo e non da morto, perchè i veri maestri lo sono da vivi e non da morti: dopo è troppo facile, è tutto quanto troppo facile... Avrei voluto conoscere Cristo, e, chissà, forse sarebbe stato anche il mio maestro, se soltanto l'avessi conosciuto da vivo.....

La saggezza e la bontà alla lunga danno la nausea, specie quando si tratta della tua saggezza e dalla tuo bontà. Ammiro la saggezza negli altri, ma la detesto in me.

Sto ritornando alla realtà, poco alla volta. Anche se la realtà è sempre troppo stretta, troppo finta. Ci sto tornando un poco alla volta

Scrivere è un vizio. Come bere per un bevitore. Dopo un po' non ne puoi fare a meno. E' parecchio che non scrivo e oggi sento tutto il peso dell'astinenza. Ho la tentazione di scrivere ancora. Non so se lo farò, ma la tentazione è grande - indipendentemente dal risultato pratico, vale a dire da che me ne verrà in tasca.