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LA CONDANNA, un racconto di C. Mazzoni






La storia. La mia storia.
Non la conosco. Non la ricordo.
So che sono stato condannato, non so quando, non so per che cosa.
So la mia condanna.
Forse non finirò mai di scontarla.
Forse non c’è stato giorno della mia vita nel quale non fossi condannato.
Ecco la condanna: condannato a restare perennemente in piedi, in una specie di corridoio strettissimo, lunghissimo, di cui non scorgo né l’inizio, né la fine – inizio e fine che pure debbono esserci, come in ogni cosa – almeno credo – o spero. L’ho percorso in questo tempo in ciascuno dei due sensi, ma non ne ho mai raggiunto la fine, né in un senso, né nell’ altro.
So per certo che il corridoio non è circolare, non si richiude su se stesso. Lo so da me, perché ci ho meditato. Ho fatto dei segni sulla parete – m’è consentito fare dei segni, ho un pennarello con me, non so come l’ho avuto, mi sembra di averlo sempre avuto, forse fa parte della condanna-: bhè, procedendo da una parte non incontro nuovamente il segno, ma se torno indietro sì. Potrebbe darsi che il corridoio sia così lungo che se lo percorressi sempre in una direzione prima o poi incontrerei il segno che ho fatto dall’altra, ma lo escludo. Credo di averlo percorso a sufficienza nei due sensi.
Non l’ho detto, ma il corridoio non è ad andamento rettilineo, ma procede diritto, poi ad un certo momento piega verso destra, poi verso sinistra e così via. Ad ogni modo, in nessun punto, almeno che io abbia percorso, si dirama in due tronconi: ho sempre solamente due scelte: o andare avanti, o tornare indietro.
Un particolare non indifferente che ho trascurato: è talmente stretto che mi costringe a stare perennemente con la parte frontale del corpo rivolta alla parete. Cammino in un modo un po’ anomalo: mi muovo sui fianchi. Il mio andamento è laterale, non rettilineo, diciamo che più che un camminare è un procedere. Credo che faccia parte della condanna anche questo. Ne sono certo: forse questo è l’essenziale della condanna.


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